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Violazione di Codice

Inserito Domenica 01 marzo 2009

Narrativa un racconto di William Meikle

illustrazione di A. Folli




ATTENZIONE – VIOLAZIONE DEL CARATTERE
ATTENZIONE – VIOLAZIONE DEL CARATTERE
ATTENZIONE – VIOLAZIONE DELLA VIOLENZA
HAI RICEVUTO UNA PENALIZZAZIONE DI VENTI PUNTI
SEI A TRENTA PUNTI DA UN RIADATTAMENTO OBBLIGATORIO
Mark Walters abbassò lo sguardo sui frammenti di bottiglia ai suoi piedi e ricacciò indietro l’impulso di ridurre il vetro in pezzi ancora più minuti.
La voce monotona dalla banda al polso arrestò la sua litania e decadde nel silenzio. Si costrinse a mantenere la respirazione sotto controllo, facendo gli esercizi per calmare il corpo, pregando che in futuro non lo avesse tradito ancora, sperando che i sensori sarebbero rimasti tranquilli. Questa volta ci riuscì. Non ci furono luci rosse e la voce non tornò.
Lei rideva di nuovo. Per prima cosa era questo che l’aveva fatto uscire di testa: quel sogghigno e quel brutto sguardo negli occhi. Come aveva mai potuto essere stato innamorato di lei?
“Tu vuoi che lo faccia, vero?” chiese, cercando di restare calmo. “Vuoi rimettermi di nuovo dentro, no?”
Lei rise, più forte questa volta, e lui fece un passo nella sua direzione ma si fermò, piantandosi sul posto, quando la luce rossa lampeggiò. Trattenne il respiro. La luce tornò a spegnersi. Si voltò ed uscì dalla stanza, cercando di ignorare la risata che lo seguì fino a fuori.
Trenta punti. Un solo scoppio d’ira tra lui e la riabilitazione, e ancora tre settimane del mese da passare. Doveva starsene tranquillo, ma poteva farcela. Doveva farcela: non sarebbe sopravvissuto ad un altro turno in clinica.
L’ultimo quasi lo aveva ucciso, le medicine, l’esercizio, il tentativo costante di lavaggio del cervello e, peggio di tutto, la banda al polso, il marchio che per sempre l’avrebbe segnato come un deviante, il guinzaglio che lo teneva sotto controllo.
Aveva bisogno di bere, ma non poteva fidarsi di se stesso. Il bere era sempre stato il suo problema più grosso ed era stato la causa dei suoi due ultimi turni dentro: la prima volta era solo ubriaco e turbolento, ma la seconda volta aveva dato una sventola a un tizio nel bar, gli aveva rotto la mascella ed era stato in riaggiustamento per due mesi.
La luce rossa al polso iniziò di nuovo a lampeggiare e lui lottò per ritornare sotto controllo. Riusciva a sentire Sandra che gironzolava per la cucina ma sapeva che il trovarsi nella stessa stanza in cui stava lei era una cattiva idea. Forse un bicchiere era il minore dei due mali.
I bar era tranquillo e in penombra in questo inizio della serata. In tempi duri come questi sempre meno gente poteva permettersene il lusso e poteva vedere che erano presenti solo i veri bevitori. Ne riconobbe la maggior parte (di fatto li aveva chiamati quasi tutti amici) prima che la banda al polso lo marchiasse.
Tenne in tasca la destra mentre passava la sua carta.
“Birra,” disse, “Fredda come sai fare tu.” Il barista passò la carta nella macchinetta e gliela porse.
“Mi spiace, Mark...” gli disse mostrando a Mark la scritta sul display.
CREDITO ESAURITO
La guardò incredulo. Aveva depositato mille sterline, lo stipendio di un mese, soltanto il giorno prima. Allungò di nuovo la carta al barista.
“Fammi la lista degli ultimi dieci movimenti, per favore.”
Attese con pazienza, cercando di mantenere il controllo mentre la stampante dietro il bar faceva rumorosamente il proprio lavoro. Di solito veniva usata per fare gli scontrini, ma se necessario si poteva accedere alla storia contabile del proprio credito.
Quando guardò la stampata ebbe uno scoppio d’ira. L’aveva fatto lei: pulito il conto, solo dieci minuti prima, probabilmente subito dopo che era uscito di casa. Nel tirare fuori la mano dalla tasca vide che la luce rossa stava di nuovo lampeggiando. Strappò il foglietto di carta in mille pezzi mentre la voce monotona tornava a farsi sentire.
ATTENZIONE – VIOLAZIONE DEL CARATTERE
HAI RICEVUTO UNA PENALIZZAZIONE DI DIECI PUNTI
SEI A VENTI PUNTI DA UN RIADATTAMENTO OBBLIGATORIO
“Merda,” disse, e la banda al polso rispose di nuovo.
ATTENZIONE – VIOLAZIONE DEL CARATTERE
HAI RICEVUTO UNA PENALIZZAZIONE DI DIECI PUNTI
SEI A DIECI PUNTI DA UN RIADATTAMENTO OBBLIGATORIO
Prese un bicchiere dal bancone e lo lanciò con forza contro la parete più lontana mandandolo in frantumi.
VIOLAZIONE DI VIOLENZA
SEI ORA IN CONTRAVVEZIONE SULLA PAROLA RIMANI NELL’ATTUALE LOCAZIONE
QUALSIASI TENTATIVO DI SFUGGIRE AL RIAGGIUSTAMENTO SARA’ PUNITO
Questa vota la luce rossa rimase accesa e i suo lampeggio si accompagnò a un guaito acuto della banda al polso.
Adesso il bar era vuoto: tutti gli avventori se n’erano andati quando Mark aveva fracassato il bicchiere contro il muro. Il barista lo stava fissando con un’espressione che combinava pietà e rabbia, pietà al pensiero di ciò che gli imponitori avrebbero fatto, rabbia al pensiero che lo avrebbero fatto nel suo locale.
Mark meditò di scappare, ma solo per un attimo. Era scappato l’ultima volta, aveva corso fino a che il respiro non gli faceva scoppiare i polmoni e le sue gambe non gli rispondevano più. Ma tutto quello che aveva guadagnato erano stati due minuti: la banda al polso li aveva portati dritti fino a lui.
Quando arrivarono cercò di ribellarsi, coi bicchieri, coi pugni e con i denti, ma il loro rinforzo corporeo era duro ed erano in troppi. Ne aveva buttati giù solo due quando fu preso a randellate sulle ginocchia, buttato a terra e infine fatto svenire.
Fu solo più tardi, quando rinvenne in cella e lo colpirono con le mazze, coi piedi e con i pugni, che scoprì che era morto uno degli imponitori che aveva colpito.
Tre settimane dopo era nello spazio, in viaggio verso la sua condanna a vita sulla Colonia Marziana. Senza remissione, senza libertà sulla parola, senza via di ritorno.
Il giudice aveva usato vecchi termini: servitù penale, lavoro duro, per tutta la sua vita naturale, tutti questi discorsi felici, ma almeno era ancora vivo. Gli era stata data la scelta, veniva data a tutti ormai. Lobotomia, iniezione o Marte (vegetale, vermi o polvere, come veniva detto nei manicomi).
Aveva scelto la polvere, pensando che fosse meglio rimanere vivo e cosciente. Non si poteva mai sapere cosa ti avrebbe riservato la vita e, almeno, era riuscito a stare lontano da Sandra.
Solo un’ora dopo essere sbarcato si stava chiedendo se avesse fatto la scelta giusta mentre lo assicuravano al letto per l’operazione.
Naturalmente aveva sentito parlare della polmonazione. Era stata sviluppata verso la fine del ventesimo secolo, quand’era solo un ragazzino. La colonia del Pacifico del Sud ormai la usava da circa venti anni senza nessun effetto collaterale visibile. Ma una cosa era affidare la tua respirazione ad una macchina impiantata quando ti trovavi qualche metro sott’acqua e tutt’altra quando ti saresti ritrovato su un pianeta alieno ad almeno mille milioni di chilometri da casa tua.
Il cuore gli batteva forte mentre gli stavano amministrando l’anestetico, ma non ci fu nessuna luce d’allarme al suo polso. Era finalmente libero da un marchio, ma l’operazione gliene stava dando un altro, un marchio che non si sarebbe più potuto cancellare o rimuovere. Inalò un ultimo respiro mentre la medicina se lo portava via. Mark si svegliò con un ronzio al torace, una sensazione tutt’altro che spiacevole. Spostò lo sguardo su buco, lo sfiato gommoso pulsante bene in vista sulla spalla sinistra, che si apriva e si chiudeva con l’espandersi e il contrarsi del torace. Aprì la bocca cercando di respirare ma non ci fu la sensazione abituale... avevano fatto qualcosa ai suoi muscoli.
Quando parlò qualcosa nella macchina scattò per fornire la vibrazione corretta alle sue corde vocali ma non sapeva proprio come funzionasse il meccanismo, la tecnologia era al di là delle sue capacità. Fintanto che lo avesse mantenuto vivo la cosa non lo avrebbe interessato più di tanto.
Lo misero alla linea di lavoro il giorno successivo. Sollevare la pala, setacciare la polvere, spalare la polvere, sollevare la pala. E via e via, man mano che la polvere gli si sistemava tra le dita, sotto le palpebre e formava una crosta rossa e sottile attorno alla sfiato. E mai una volta gli fu detto cosa stessero cercando. “Lo scoprirete appena lo troverete.”
Tutto ciò che doveva osservare era la polvere e il cielo oscuro e sconosciuto, i suoi compagni prigionieri e i fucili che erano sempre puntati verso di loro.
Per i primi due o tre giorni il suo corpo si ribellò al lavoro, i muscoli si indolenzivano e la schiena si affaticava, ma ben presto riuscì ad entrare nella routine. Non era poi così diverso dalla sua infanzia all’orfanatrofio: tirar fuori patate, scegliere patate, sollevare patate, inscatolare patate. Era stata la stessa cosa allora: chi è che mangia patate oggigiorno e in questa era? Non aveva mai saputo dove andassero quelle patate e non aveva mai saputo cosa ci potesse essere sotto la polvere.
L’unica cosa che conosceva era la noia distruttiva di tutto questo e il respiro affannoso che veniva dai vecchi timer sulla linea di lavoro man mano che la loro respirazione polmonizzata si faceva più lieve e i loro gemiti fischianti crescevano di tono e la polvere scivolava dovunque.
Quando le guardie guardavano dall’altra parte aveva la possibilità di guardare su, su al cielo nero e sfavillante. Gli avevano indicato la Terra e aveva passato molti lunghi momenti a guardarla durante i suoi primi giorni sulla linea. Sandra era là.
Sandra che lo aveva salvato dalla riabilitazione quando lui era giovane, Sandra che aveva dimostrato fiducia in lui quando era nelle vasche, la stessa Sandra che alla fine lo aveva tradito, proprio come tutti gli altri, una processione succedutasi per tutta la vita di integrati e benpensanti determinati a farlo conformare. Sandra dal corpo voluttuoso e dalla lingua calda e veloce.
Poi le fantasie vennero sempre più spesso (conficcarle un coltello nella gola, vandalizzarle la casa, bruciarle l’auto), fantasie sanguinolente di morte e distruzione. Ma alla fine la povere si insinuò perfino nei suoi sogni e la routine ebbe il sopravvento e la sua mente rallentò per adattarsi al passo del lavoro.
Di notte cadeva esausto sulla sua cuccetta e il sonno veniva dai tranquillanti, solo per risvegliarsi nella stessa fatica giornaliera. I momenti migliori erano quelli del giorno di riposo, uno al mese per ogni prigioniero, un giorno in cui era permesso loro un po’ di tempo tutto per sé, per bere, per afferrare qualche notiziario terrestre e per inviare messaggi a casa.
Mark non aveva messaggi da mandare, nessuno con cui volesse parlare, nessun desiderio di sapere cosa stesse accadendo da quelle parti. Durante il primo mese cercò di stare alla larga dal bar.
A loro era concesso l’equivalente di due bicchierini di whisky ma non poteva fidarsi di se stesso neppure con così poco. Ma col secondo mese ebbe bisogno di una bevuta, di qualsiasi cosa che gli togliesse il sapore morto della polvere nella gola.
Il bar aveva una struttura minima: un bancone, protetto da una spessa maglia di ferro con solo un piccolo buco per la distribuzione delle ordinazioni. Una dozzina di tavoli mezzi rotti stavano alla rinfusa al centro della stanza, ma la maggior parte dei venti o poco più prigionieri era ammassata attorno all’holovid. Qualche nuovo pettegolezzo da casa, senza dubbio, pensò mentre si prendeva la sua bevanda.
Aveva fatto caso che qua gran parte della conversazione riguardava quello che stava accadendo sulla Terra, ma aveva cercato di ignorarlo, sapendo che non sarebbe mai più tornato indietro. Alcuni degli altri sembrava che non riuscissero a fare questa connessione e questo fatto lo portava ad essere scansato come un tipo solitario, il che per lui andava benissimo.
Il primo bicchiere andò giù. Non tanto facilmente: non l’avrebbero mai fatta franca sulla Terra a chiamare questa roba whisky. Comunque gli dette un calore piacevole nel fondo dello stomaco e poteva sentire il vecchio e familiare formicolio che saliva. Aveva appena iniziato la sua seconda razione che sentì la pressione di una mano sulla spalla.
Si voltò e si ritrovò a fissare un viso devastato. L’occhio sinistro era completamente andato, solo un foro carbonizzato contornato di polvere che lo fissava. L’occhio destro blu luccicava e riconobbe quello sguardo.
Qualcuno che cercava la rissa... aveva visto troppe volte quello sguardo per potersi sbagliare. Tornò a rivolgersi verso il proprio bicchiere.
La pressione sulla spalla si fece più decisa e un dito si uncinò nel suo foro di respirazione e iniziò a tirare. Mentre si voltava sentì una voce profonda.
“Stai bevendo la mia razione. Non lo sai che non è educazione?”
Il dolore al petto si fece più forte mentre veniva sollevato dal posto dove sedeva. Con la coda dell’occhio vide il gestore del bar che premeva il bottone anti-panico ma sapeva benissimo che l’aiuto sarebbe arrivato troppo tardi. Poteva sentire la rabbia salirgli dentro. Ebbe tempo di dare un’occhiata al proprio polso, cercando la luce d’allarme, in attesa che venisse elevata la multa.
La sua esitazione permise all’uomo davanti a lui di tirare con più forza il suo foro di respirazione generando un dolore lancinante al petto e un gemito di risposta dalla sua polmonazione. Poteva vedere che c’era un’attività frettolosa per tutto il bar, ma non c’era nessun segno d’aiuto in arrivo. Prese in mano la situazione.
Allontanò la mano dalla propria spalla con una forte spinta, sentendo qualcosa che si lacerava nel petto mentre l’altro cadeva all’indietro, poi si sollevò dalla sedia. Si voltò e trovò che il suo oppositore stava rimettendosi in equilibrio. Mark tirò un calcio alle sue gambe gettando allo stesso tempo i fondi del bicchiere nel suo occhio buono.
Il volto devastato si contorse in una smorfia e mani grosse cercarono di togliere il liquido pungente. Mark rideva, la vecchia furia rossa che gli ballava negli occhi. Poi colpì il suo attaccante, con durezza, il pugno destro che assestava un colpo poderoso sotto lo sterno. L’uomo con un occhio solo cadde a terra, tirandosi dietro il tavolo, spandendo birra e polvere e vassoi tutto attorno a lui. Il suo occhio buono fissò Mark, cerchiato di rosso, supplicante, mentre il fischio dalla sua polmonazione saliva e saliva e iniziava il rumore di soffocamento.
Ora c’erano molte guardie che si dirigevano verso di loro, le armi spianate, ma Mark non volle attendere. Si spostò velocemente in avanti per calciare con violenza con lo scarpone il viso dell’uomo caduto, la prima volta per tenerlo giù, la seconda per essere sicuro che ci rimanesse. Stava per tirare indietro una terza volta la gamba quando qualcosa di pesante lo colpì alle spalle e l’ultima cosa che vide prima di cadere nel buio più profondo fu il sangue e la povere mischiati a formare una pasta che macchiava la pelle nera dei suoi stivali.
Questa volta non ci fu nessuna giuria, nessuna difesa, nessuna possibilità di esporre la propria versione. Nel giro di meno di cinque minuti entrò ed uscì dalla stanza. Mansione di cercatore... la cosa più vicina ad una sentenza di morte dopo un colpo di pistola alla testa.
Lottò mentre lo mettevano nel contenitore, lottò mentre lo spedivano in volo sopra al deserto rosso e li maledì allorché lo lasciarono sul crinale con la razione di un mese, un riscaldatore, una tenda e un tracciatore.
Conosceva la faccenda: usare il tracciatore, trovare quello che doveva tracciare, arrivarci il più possibile vicino e loro venivano a prenderti, concedendoti un giorno, e solo uno, di riposo prima di rispedirti a fare quel lavoro di nuovo.
Nei due mesi da quando era arrivato erano stati spediti fuori in tre. Due erano tornati dentro i sacchi, il terzo non aveva dato segni di vita e alla fine del mese non si riuscì a ritrovarlo. Decise che se ne sarebbe stato immobile per un mese in attesa che passasse. Sarebbero ritornati a cercarlo e avrebbe detto loro che non aveva trovato niente. E così via.
Montò la tenda prima che facesse notte. Lo avevano lasciato sulla cima di una cresta montagnosa che si allungava a perdita d’occhio verso sud e la vista, mentre il sole stava tramontando, era mozzafiato. Si avvolse attorno al corpo la lamina e si sedette con la tenda aperta ad osservare il tramonto. Più tardi avrebbe avuto bisogno del riscaldatore ma per ora gli bastava guardare lo spettacolo.
Le colline brillarono, prima color arancio poi rosso ed infine porpora prima di diventare nere e prima che si rivelasse il cielo in tutta la sua gloria. Rientrò a carponi nella tenda, accese il riscaldatore e sperò che nel pacco con le razioni ci fossero anche un po’ di sigarette.
La mattina dopo si alzò prima che la temperatura si facesse troppo alta e sfasciò il campo. Sapeva benissimo quanto si sarebbe fatto caldo da quelle parti... aveva visto gli olo educativi e doveva ripararsi all’ombra prima che finisse abbrustolito.
Trovò una spaccatura profonda nella cresta, una crepa che sembrava allungarsi per chilometri verso sud e che si trovava immersa nell’ombra lungo la parete orientale. Prima di mezzogiorno aveva trovato il posto adatto per sistemare il campo: il posto migliore per mettersi ad aspettare.
Fu solo dopo che aveva sistemato la tenda e allorché si stava mettendo a mangiare che notò il tracciatore che si era messo a lampeggiare. Lo gettò in fondo alla tenda, sotto la lamina. Tirò da parte il sottile materiale d’argento per far spazio e la piccola luce bianca ammiccò verso di lui.
Dovette ammettere che la cosa lo intrigava. Tutti quegli uomini che setacciavano la sabbia e nessuno che sapesse cosa stesse cercando, e nessuno che avesse mai trovato niente. C’erano delle voci, sì e tante.
“Diamanti. I diamanti più grossi che tu abbia mai visto.”
“Uranio. Non vedi come portano le armature le guardie? Non sono armature... sono scudi.”
“Manufatti. Antichi manufatti marziani... John Carter di Marte e tutta quella mondezza.”
Le aveva sentite di tutti i colori e non credeva a nessuna, nessuna aveva senso. Il problema era che non aveva ipotesi alternative.
Erano in molti a pensare che fosse solo un mezzo per tenerli occupati. Una manovra per farli stare lontano dai problemi. Ma adesso lui stava qua e la luce stava lampeggiando.
Si lasciò alle spalle la tenda. Durante l’allenamento gli avevano detto che il tracciatore aveva una portata di un chilometro, così non poteva perdersi. Fece un giro circolare attorno alla tenda misurando la potenza della risposta. Qualsiasi cosa la stesse causando sembrava che fosse localizzata verso sud lungo il canalone. Il sole scendendo si stava avvicinando alle sue pareti.
Una quindicina di minuti dopo si ritrovò di fronte a una parete di roccia vuota in un piccolo canale lontano dalla vallata principale. Il tracciatore pulsava all’impazzata ogni volta che lo portava verso la parete, ma non c‘era nessun ingresso. Doveva anche prendere in considerazione il fatto che la sua destinazione fosse in cima alla parete, ma la scogliera era alta oltre sessanta metri e non se la sentiva di mettere in pericolo la propria vita sulle rocce sconnesse sopra a lui. Preso dalla frustrazione, sferrò un calcio alla roccia.
Questa reagì aprendosi di fronte a lui: un passaggio che si addentrava nella roccia illuminato da piccole strisce di luce simile al neon. Si guardò attorno chiedendosi se lo avesse visto qualcuno, qualcuno che voleva che entrasse. Lanciò un urlo lungo il passaggio ma il solo suono che sentì fu la sua voce che rimbalzava a distanza. Fece un passo avanti.
Il tracciatore che teneva in mano iniziò a farsi sempre più caldo e il tono del suono nel suo torace si fece più profondo. Fece un passo indietro ma il suo corpo resisteva come trattenuto come da una forza invisibile. Fu solo quando si spostò in avanti che la pressione diminuì... qualcosa, una qualche forza, lo stava conducendo nel passaggio.
Il calore si fece troppo alto forse e fece cadere a terra il tracciatore notando che la luce aveva smesso di lampeggiare, ma poi la sua preoccupazione si concentrò sula polmonazione.
Non c’era ossigeno di sorta che arrivasse al suo sistema e la bocca ingoiava inutilmente in cerca d’aria mentre lui avanzava... succedesse quel che doveva succedere, meglio che starsene fermi. Sentiva che si stava indebolendo e una nebbia grigia si impadroniva della sua visione, ma si costrinse a fare un’ultima spinta in avanti, una spinta che lo portò ad abbandonare la zona di pressione e a stramazzare rantolando sulla pietra gelata.
Una cosa almeno la sapeva: non esisteva nessuna tecnologia terrestre che riuscisse a porre un tale differenziale di pressione su un corpo, nessuna che lui conoscesse. Sembrava proprio che la teoria dei manufatti stesse per essere dimostrata. Aveva circa due ore di tempo per l’esplorazione prima che arrivassero i rinforzi e lui aveva intenzione di usarle. Mentre si faceva strada lungo il passaggio non fece caso alla roccia che silenziosamente tornava al suo posto dietro di lui.
Il passaggio, sebbene superficialmente pulito, sapeva di polvere, lo stesso sapore che conosceva bene per averlo incontrato sulla linea e doveva sputare in continuazione perché non gli si intasasse la gola. La polmonazione gemeva per la pressione sui filtri ma la cosa non lo preoccupava, aveva dovuto sopportare cose ben peggiori.
Aveva camminato per circa cinque minuti quando incontrò il primo incrocio e dopo altri cinque minuti arrivò alla camera.
Era ampia, apparentemente scavata a mano dalla solida roccia e ricordò a Mark le vecchie rovine che un tempo aveva visitato con le suore dell’orfanatrofio (St. Paul’s Chapel?)... qualcosa di simile, comunque. Ma quello che catturò i suoi occhi furono le luci danzanti a qualche centinaio di metri sopra di lui.
Là in alto stava danzando una dozzina di stelle, stelle che sembravano addensarsi verso di lui. Come furono più vicine riuscì a vedere che erano dei globi, una trentina circa di centimetri di diametro e colmi di lampi spumeggianti di luce rossa e gialla e d’oro. Scesero accelerando verso la sua testa e poi si arrestarono, sfidando la spinta, in un cerchio un mezzo metro sopra di lui.
Ronzavano, ognuno emettendo una nota musicale bassa che oscillava mentre si spostavano, formando accordi e arpeggi e turbinii di luce e musica e danza. Mark rimase immobile ammaliato dalle acrobazie aeree.
Poi si fecero più vicini, ruotando in uno schema complesso attorno alla sua testa, solo a una trentina di centimetri dal suo naso, poi a quindici, poi a un pelo, con l’aria che al loro passaggio gli scompigliava i capelli e poi alla fine si arrestarono, un cerchio proprio sopra la sua testa.
E poi lo sentì, il tremolio di un’esplorazione, di una richiesta nella sua mente.
“Chi?” chiesero, in un’unica voce... una voce come un panno di seta passato sopra la lama di un coltello.
“Perchè?” chiesero.
E, di nuovo, “Chi?”
E la sua mente rispose con un torrente di ricordi e di immagini, piacere e dolore, la sua vita succhiata e digerita e (un sentimento che conosceva intimamente) giudicata.
I globi danzavano mentre la storia veniva ripetuta, una massa ribollente di grigi e neri e rossi e ori, che accese la camera d’ombre piroettanti.
Finì tutto troppo presto. La sonda si ritrasse e la danza si arrestò. La luce interna dei globi si affievolì, diventando fredda e vistosa. La musica si arrestò. In silenzio iniziarono a risalire verso il soffitto. Era stato riconosciuto mancante.
Senza pensarci si piegò a raccogliere un sasso. Solo per attirare la loro attenzione, pensò, gli insegno io ad ignorarmi. Fece il lancio e il sasso si diresse con forza verso l’alto prendendo in pieno il globo che si frantumò in una miriade di frammenti luccicanti che con lentezza scesero in basso per posarsi sulla sua testa, sulle sua braccia, sul suo corpo.
Di colpo gli furono tutti attorno, undici palle di fuoco vorticanti di rabbia, che ruotavano sempre più velocemente fino a che non diventarono un unico cerchio di fuoco col suo corpo spaurito come centro.
Poi la sentì di nuovo, la sonda nella sua mente. Ma questa volta aveva il suono duro e metallico dell’acciaio che fora la pietra mentre si univano a lui e riordinavano i suoi ricordi e lo legavano al loro dolore.
E sentì il dolore della mascella che si spezzava. E sentì il pesante stivale che lo colpiva in pieno viso, una prima volta, poi con più forza… poi sentì la morte, una specie di spirale che gli usciva dalla mente, ruotando e filando, mentre cadeva in frammenti nell’oscurità, e il dolore lo fece urlare credendo di non riuscire a sopportare altro.
Fu vagamente cosciente del fatto che i globi si stavano ritirando, staccandosi da lui e dirigendosi verso il soffitto, e fu cosciente di che cosa avevano fatto, forzandolo, per la prima e ultima volta in vita sua, a comprendere pienamente le conseguenze delle sue azioni. Sentì un’ultima parola, un sussurro, pieno di angoscia e di rimorso ma pur sempre deciso e fermo.
“Giustizia.” Dissero, mentre salendo sparivano dalla vista e lui si mise a frignare proprio nel momento in cui lo stivale lo colpiva sotto l’occhio sinistro e lui urlava nell’oscurità mentre moriva... e ancora... e ancora... e ancora.
E laggiù, nel profondo della sua mente poteva sentire la voce del giudice, i termini della sua sentenza che rieccheggiavano nell’ocurità assieme a lui.
“Per il resto della tua vita naturale.”
“Per il resto della tua vita naturale.”
“Per il resto della tua vita naturale.”

***ENDS***


Titolo originale, Code Violation, trad. Italiana Danilo Santoni


William Meikle
PO Box 319
Catalina
NL
Canada
A0C 1J0
meiklewilliam@yahoo.com
http://www.williammeikle.com

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