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Vito Benicio Zingales e il Truccatore dei morti: intervista all’autore

Inserito Mercoledì 11 marzo 2009

Interviste

Da “Il Truccatore dei morti”

Io non sono bravo con gli uomini vivi. All’obitorio trucco i “cadaveri morti”. A casa mia non parlavo ai miei “vegeti defunti”. Tra le strade al quartiere mi confondevo con entrambe le categorie.
L’unica cosa che possedevo erano il mio corpo, Dio colle mosche e la mia stanza.
Fingevo di guardarmi. Allungavo lo spazio fra tetto e pavimento ed in uno scarto di cielo, posto al centro di quella menzogna, mettevo il mio corpo.
E non mi parlavo. Quando mio padre esplorava mamma, io facevo finta di me. Non so quanto durasse la cosa. Né da quale Dio o altro fantastico convincimento venissi risucchiato. Mi dimenticavo di me.
Non ricordo in che giorno accadde il miracolo, ma da quando incominciai ad essere incline all’uso della vita, dopo aver dichiarato ufficialmente morto mio padre, presi a riconsiderare la vita stessa che, proprio da quel giorno, credevo abbondare più che mai nel mio corpo. Ne ripresi la vigoria e, incoraggiandomi, invitai Dio ad eseguire il Suo lavoro, se mai ne avesse avuto voglia, intorno le più “qualificate” spoglie di mio padre, ma lontano dal mio corpo.
Abito nella vita di questa casa da quarant’anni. Scendo e salgo 66 scalini al giorno. Do la luce alle sue rampe quattro volte al giorno. Penetro le sclerotiche serrature due volte al dì. La osservo sbiadire alle spalle una volta a notte. Per quarant’anni… escluso le domeniche. La strada su cui sorge l’edificio ha larghi marciapiedi, otto lampioni in un senso e sette nell’altro, una linea sbiadita sulla pece escoriata fra dondolanti mezzerie, sei contenitori in ferro tre per lato, una cabina ENEL sul lato est dell’unico crocevia, quattro tombini fognari e un sottile palo che alla fine della strada, per chi la percorre in direzione mare, indica STOP. La strada appartiene a tutti. Chi ne detiene il diritto assoluto, però sono i cani. Agli uomini è vietato defecare sul marciapiedi. Gli uomini, indifferentemente maschi e femmine, invece, sono autorizzati a farsi di “38”. Il lardoso assaggia il catrame col suo cane, lo storpio esce dal suo buco col bastone, la puttana smontante rientra a casa e lo sbirro montante schizza via con il revolver affibbiato alle palle.
Gli sbirri delle volanti, come sempre a quell’ora, fanno il giro del medesimo isolato, come se non avessero altro cazzo da fare. Dall’altra parte, invece, e alla solita ora, indisturbato mano lesta fotte prossimo ed autoradio, come se da tutti fosse invitato a farlo.
Lo spaccio di eroina e marijuana incomincia due ore dopo il buio. I lampioni illuminano la strada già nel tardo pomeriggio. La prima canna viene fumata dopo cena dal primo degli stronzi della banda all’angolo. La luna incomincia a rincoglionirsi non appena Dio sbraita che di quello scempio in strada non sarebbe lui l’artefice.
Dalla mattina a mezzanotte guardo il mondo colle orecchie. Abito questo mondo da lontano. Dal terzo piano. Conosco ciò che basta per sopravvivere. Mi piace sapere che ci sono. Il giornalaio, ad esempio, mi saluta. Ne è evidente la sua discreta indifferenza.
Talvolta, esagerando, comunica più parole.
“’ngiorno, Buonanotte. Come va?”
“Vado a piedi!”
Mi stupisce l’idea che ho di me…
Non ho colleghi. Non ho un capo settore. Io dipendo dalla morte. Il mio turno è di 24 ore. Non ho nemici morti, né amici vivi e neppure in punto di morte. Indosso sempre i guanti e guardo ancora il mondo con le orecchie. Mio padre è ancora là, due stanze dopo in fondo alle tenebre del corridoio. Il suo catarro abita sempre casa. Abitualmente si porta a spasso con corpo e pelurie al seguito. E’ morto già da tempo, ma nessuno tra le mie conoscenze è andato lì a riscuoterne il dovuto.
Io l’ho lasciato fare. Avevo altro a cui pensare.

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