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Quattro giorni per non morire - Marino Magliani, intervista all'Autore

Inserito Venerdì 28 aprile 2006

Interviste a cura di Giuseppe Iannozzi








Soltanto quattro giorni

per Marino Magliani


di Giuseppe Iannozzi




Ci sono giorni che passano tutti uguali senza mai un incidente né una sorpresa. Ci sono giorni che sono di sicura monotonia dove a predominare è il sentimento che la vita sarà lunga, sicuramente destinata a una pacifica vecchiaia. E forse per vivere a lungo il segreto sta nel non porsi alcuna domanda né pretendere di più dell’aria dell’acqua e del pane che abbiamo a portata di mano perché fortunati d’esser nati in una regione aprica e modestamente ricca con un governo stabile. Eppure la vita è una incognita, soprattutto per quegli animi inquieti che non si accontentano di sopravvivere a sé stessi: è quanto accade a Gregorio, detto Colibrì o Brì, che in giovane età si reca in una terra lontana, nell’America Latina, con alcuni amici, alla ricerca di un tesoro grande, quello che potrebbe spiegare almeno in parte il mistero della loro esistenza o renderla migliore. Gregorio è giovane, ha tutto davanti a sé, il sole lo bacia in fronte: ma accade qualcosa che presto lo sprofonda nelle latebre più infinite del suo Ego disegnandolo sull’abisso del non-ritorno.
Marino Magliani
ha scritto un romanzo il cui involucro è quello di un noir: “Quattro giorni per non morire”. Ha dato vita a un uomo il cui cuore potrebbe essere quello di un colibrì, capace di battere centinaia di volte in volo e solo trentasei durante il sonno: Gregorio, il personaggio principale di “Quattro giorni per non morire”, durante la sua permanenza nei paesi del Sud America incaico viene preso da una forma di malaria tanto rara quanto ferale; per giorni sta sull’abisso della morte, incosciente, poi torna a vivere ma solo per lottare contro le febbri che gli minano il corpo e la mente. Ma non basta: tornato in Italia, ad attenderlo ci sono le manette. Qualcuno l’ha tradito, qualcuno che era con lui in Sud America: altrimenti non sarebbe finito in gattabuia per una partita di droga. Ma sarà davvero così, un tradimento di Giuda in quella che fu la geografia degli Inca?   Gli anni passano, le stagioni si sovrappongono e restano inafferrabili, Gregorio non può davvero fare niente: poi la notizia, la madre gli è morta, così gli vengono concessi quattro giorni per il lutto, quattro giorni di sole e di libertà. E Gregorio torna in paese, tra gli ulivi liguri, in quella terra che gli ha dato i natali: incontra gli affetti di un tempo, la donna che ha amato e che scopre d’amare ancora, incontra il fratello Gilberto che gli dice della terra, di quella eredità che la madre gli ha lasciato. Non sa tante cose, ma di una è certo: vuole vivere, e per riuscirci ha una sola possibilità, tentare la fuga per farsi curare da un dottore che gli dà l’ottanta per cento di sopravvivenza contro il cinquanta se continuasse a farsi curare in carcere in Italia.  
Come in quel “Sole non è per noi” di Léo Malet, come ne “Il sole dei morenti” di Jean-Claude Izzo, Marino Magliani in “Quattro giorni per non morire” racconta la terra, o meglio la biografia-geografia di un uomo la cui vita è appesa a un filo: condannato a scontare anni in carcere, condannato a soffrire le febbri malariche che ha nel sangue. La lingua di Magliani è secca, senza sbavature: in certi passi sembra d’andare incontro a quel senso di stanchezza esistenziale che Cesare Pavese ha nobilitato nei suoi romanzi e racconti, e soprattutto in quel “Lavorare stanca”. E c’è l’ironia, quella del destino, un’ironia cruda come nei migliori romanzi di Nico Orengo tra “La guerra del basilico” e “La curva del latte”.
“Quattro giorni per non morire”
, un noir che non è solo in nero, ma letteratura, disegno geografico dell’uomo, delle sue ambizioni, delle sue paure e speranze; un romanzo che parla della Liguria, che, alla fin dei conti, è la vera protagonista e che è il cuore più nobile bello storico e doloroso di Gregorio detto Colibrì, e dell’Autore, Marino Magliani.   

Marino Magliani
è nato a Dolcedo, in provincia di Imperia, il 30 luglio del 1960. Scrittore e traduttore, ha pubblicato i romanzi Molo Express, Prove tecniche di solitudine (Centro editoriale imperiese) e L’estate dopo Marengo (Philobiblion). Vive e lavora a Ljmuiden, sulla costa olandese.    

Quattro giorni per non morire - Magliani Marino – Collana SporeSironi – 156 p. - ISBN: 88-518-0062-6 –  € 12,90






- in foto: Marino Magliani -


Intervista a Marino Magliani



a cura di Giuseppe Iannozzi





1. Domanda facile, o forse difficile: chi è Marino Magliani, autore oggi di “Quattro giorni per non morire” edito da Sironi Editore nella neonata collana spore? Di te si sa davvero poco, o sbaglio?

Faccio mie le parole dell’autore che amo di più, che è Francesco Biamonti: “La mia vita è da cancellare, i miei natali non contano nulla”. Credo tuttavia che qualcosa di noi stessi valga la pena d’esser raccontato. A scuola (i miei studi sono stati disordinati, a una lunga frequentazione di istituti religiosi dove si facevano sei ore alla settimana di latino e altrettanti di letteratura classica, sono seguiti un paio di anni di scuola statale, anni sonnolenti, con professori pigri e impreparati, che entravano in classe con dieci minuti di ritardo)… A scuola, dicevo, mi affascinavano moltissimo le biografie degli autori, i loro carteggi.
Sono nato nel 1960, a Dolcedo, un paesino della vallata di Porto Maurizio, in un posto che a quei tempi funzionava da ospedale e ora è diventato un ospizio per anziani. I miei genitori erano olivicoltori e da bambino li seguivo su per le mulattiere, nel sole. La valle era una valle che finiva contro una spalliera di montagne, dalla valle non si andava da nessuna parte se non al mare, così, già fin da allora mi sembrava che da quella valle si tornasse solo indietro.
La solitudine era un bosco di ulivi zitti, di brusii di insetti, bambini con cui misurarsi non ce n’erano, in paese tiravo calci a un pallone sgonfio, per un vicolo in salita. Dovevo essere incredibilmente felice: mi pare di ricordare, avevo genitori che la sera mi venivano a salutare a letto, avevo un asino che portavo a bere alla fontana, avevo il vicolo, i portici, i vecchi che mi raccontavano storie di partigiani. In seconda elementare, che frequentai nel paese di Dolcedo a un paio di chilometri da casa mia, mi rimandarono di lingua italiana (in quei tempi si dava un esamino); la lingua della valle era il dialetto, la maestra aveva chiesto di elencare dei frutti, i famosi pensierini, e io avevo consegnato il foglio bianco.
Il mio vicino di banco - un bambino di un altro paese, di un’altra seconda elementare quindi, che era venuto a dare l’esamino di seconda nella scuola capoluogo della valle - ricordo che s’era messo fin da subito a buttar giù una sfilza di nomi di frutta: alzava un istante gli occhi alla finestra, guardava la fronda verde dell’albero, e come se avesse preso respiro, si rimetteva sul foglio a scrivere un’altra dozzina di nomi di frutta. Io ricordo perfettamente che mi sembrava così fin troppo scontato scrivere la mela, la pera, la susina, come, credo, facevano tutti. Bisognava scrivere frutta impossibile, esotica, dalle forme bizzarre, frutta piena di gusti, frutta nuova... Oppure bisognava scrivere nomi di frutta in dialetto, perché in italiano quella frutta lì non esisteva; mia madre fra poco non m’avrebbe mai dato una pera, un susina, ma ina peia, in brignun... Uno aveva addirittura scritto le olive (lo sentii bisbigliare alle spalle). Le olive frutti ? Ma eravamo matti, le olive frutti che dissetavano? Insomma non riuscendo a scrivere le cose per quello che in realtà erano o avrei voluto che fossero, lasciai il foglio in bianco.
Quell’anno avevo sentito dire che esisteva un posto che chiamavano collegio ed era tra la Liguria e il Piemonte, un posto dove vivevano tanti bambini e c’erano campi di calcio e di pallacanestro, parchi e saloni dove si mangiava tutti assieme, e camerate dove si dormiva tutti assieme. Così convinsi mia madre a mandarmi lì. Fu la prima volta che andai via da casa e non tornai mai più.
Lasciai il collegio a quindici anni, studiai irregolarmente, come ho detto, nelle scuole statali di Imperia, poi - e durante - mi imbarcai su un traghetto che portava i turisti in Corsica. Poi, tolta la parentesi del servizio di leva, vissi in Norvegia un’estate e una primavera, qualche inverno alle Canarie e qualche estate in un paesone sul mare dalle parti di Barcellona. Erano gli anni del boom degli italiani in Spagna e mi ero specializzato nel tradurre il menù dei ristoranti, i soldi non erano granché ma avevi assicurato per la vita un posto dove mangiare. Un giorno partii per il Sud America e vi rimasi più di un anno. Fu laggiù che imparai il lunfardo, il gergo che mi è servito per certi dialoghi de i “Quattro giorni per non morire”.
Al ritorno - mi avvicinavo ai trent’anni - mi fermai a vivere stabilmente in Olanda e mi venne voglia di cominciare a scrivere le cose che avevo visto durante quegli anni, ma mi accorsi che non avevo visto altro che boschi di ulivi.      



2. “Quattro giorni per non morire” – qui lo dico e non lo nego – è un romanzo, un noir scritto in una lingua che punta alla perfezione, in un italiano che è tipico di pochi grandi autori: in certe pagine si ha netta l’impressione di trovarsi di fronte a quel mondo rustico e genuino e triste di Cesare Pavese ed Eugenio Montale. Non è una esagerazione, a mio avviso, dire che il tuo romanzo è Letteratura oltre ad essere una superba storia, un noir… Quali autori ti hanno influenzato per quelle che oggi sono le tue idee? gli stessi che hanno contribuito a maturare il tuo stile? E perché?

Noir o no, è difficile dirlo, noir come noir è la vita, o questa storia è tutto fuorché un noir... Io credo che ci siano cose che si possono definire diversamente ma non smettono di essere la stessa cosa. Mi viene in mente un aneddoto che mi raccontò proprio un vecchio noirista argentino a proposito dei generi. Un paio di amici una notte passeggiano per un viale alberato e vedono una macchina ferma in un angolino che sobbalza e vanno a vedere. Avvicinano la faccia al vetro, fanno schermo con le mani e si dicono l’un l’altro: perbacco, ci sono un uomo e una donna che fanno del sesso. Tuttavia se avessero la pazienza di aspettare la fine e chiedessero a quella donna, forse la risposta della donna sarebbe stata che aveva appena fatto l’amore. Gli autori che sono stati importanti sono i vecchi seduti sui gradini, narratori di notti di sesso nei bordelli e di discese di partigiani e di colonne di camion di tedeschi, di condottieri partigiani come il dottor Felice Cascione, sorta di Che Guevara delle alti valle liguri, e del Cion Bonfante, di Cimitero, e storie di serpenti grossi quanto la gamba di un bambino che vivevano nelle pietre dei villaggi abbandonati. Affabulatori di epiche battute di caccia, di passaggi di disertori napoleonici, di tesori, occultati proprio da Napoleone in persona. Grandi conoscitori di una Liguria sotterranea, carsica.
Sono le cose che ho sempre cercato nei libri, che ho amato cercare nei libri, cose che sapevano di pioggia e di terra, da Pavese, certo, che mi ricorda gli odori della terra intorno al collegio di Mondovì, a Fenoglio, alla fuga oceanica della Questione privata che tento di riscrivere ogni volta e di fermare, fino a quel crollo, davanti al bosco... Dal Tabucchi di Pereira, al Marquez di Nessuno scrive al colonnello, per giungere ai liguri, al Calvino della Strada di San Giovanni, a Biamonti, al Conte di un libro per me importantissimo, Primavera incendiata, che mi ha aperto una strada, una finestra su una Liguria intimamente mitica e a me sconosciuta… alle sue poesie, ai versi dell’Oceano e il ragazzo, che attraversano e vanno ben oltre qualsiasi Liguria e regione: un giorno se mi leggerà il lettore del terzo millennio, saprà che c’erano gli alberi e i desideri, le palme e i pini, e gli eucalipti dalle foglie a quarto di luna, e le rose: chi non voleva più soffrire, e chi voleva amare tutto…


3. Leggendo “Quattro giorni per non morire”, ecco una storia che è, per così dire, non solo la biografia ma anche la geografia di un uomo in corsa contro il tempo per cercare di sfuggire alla mano impietosa della morte. Si respira un pathos forte, di ineluttabilità come nei migliori romanzi di Jean-Claude Izzo e Léo Malet. Il protagonista al centro del tuo romanzo, per un errore commesso in gioventù nell’America Latina, alle soglie del Duemila sa che ha una sola speranza - flebile a dire il vero – per tentare di salvarsi. Chi è Brì, o chi credeva di poter essere?

Certo, la geografia è senz’altro il personaggio centrale delle mie storie come è stato detto. E’ il posto dell’anima, e l’anima sa solo scappare.
Brì è uno che non ce l’ha fatta a restare, uno che, come dice lui guardando il tempio della memoria, capisce di non essere riuscito a suo tempo ad accanirsi come tutti gli altri contro le cose che gli stavano attorno, le cose della terra, la produzione agricola, la polemica degli agricoltori liguri contro le istituzioni che li abbandonano a se stessi. Uno che guarda e rimpiange di non aver chiesto un giorno, una sera d’estate, alla festa del paese, il ballo a una donna. Ma credo che i “Quattro giorni” debbano passare pure attraverso la lettura dei “segni”, la storia ha infatti un incipit in Sud America, laggiù inizia la fine e Colibrì lo sa, in mezzo a terre dove i fenomeni del cielo portano sventure, dove “ogni istante del presente è il minuscolo ingranaggio di una profezia che continua”. Colibrì sa che portando in Europa quel carico di coca “rosada” si caricherà della stessa sventura che il passaggio della cometa di Halley aveva annunciato a Hatahualpa. La profanazione dei cimiteri incaici col suo sentore di morte, come l’alito di un cane, il danno che una mano arreca a una farfalla pur non volendolo, Colibrì la sente, e quella notte, lungo la strada peruviana, che si ferma a guardare la Via Lattea, è come se egli l’avesse tutta quanta disperatamente davanti, in uno schermo, la sua corsa verso la fine.



4. Dario Voltolini, giustamente, scrive a proposito di questo noir mediterraneo: “Qui c’è un passato che riemerge, un futuro da giocarsi all’ultima mano. C’è una partita, c’è un rischio, c’è un dolore. C’è una trama che ti prende, una rete di affetti che non ti lascia, una scacchiera su cui muoversi con cautela e decisione”. Come ne “Il sole dei morenti” di Izzo e “Il sole non è per noi” di Malet, nel tuo romanzo “Quattro giorni per non morire” il sole è un simbolo, una speranza ma irraggiungibile. E’ il sole della Liguria, dove Brì torna dopo tanti anni, ma per quattro giorni soltanto, ritrovando il fratello e la madre morta, ma anche tanti altri affetti. Brì non si arrende alla morte; e però è come se fosse già morto. Il tuo personaggio lotta per sé stesso: solo per salvarsi la pelle? o ha un progetto di vita più grande all’orizzonte che non sia un semplice sopravvivere?

Certo, la luce nella scrittura mediterranea, in quella di Izzo, di Biamonti, di Orengo, e di un altro grande, quasi sconosciuto, Elio Lanteri, autore di una meravigliosa ballata, La ballata della piazzetta, dove si ha finalmente una Liguria non olearia, la luce è ciò che si insegue e ciò da cui si scappa per non farci male. Per me, la luce lascia solo intuire qualcosa, forse come da bambino, mi pare di ricordare, dalla luce invernale che si posava sugli ulivi, intuivo un mare ma non capivo dov’era.
Sì, Colibrì è come se fosse già morto, e questo può solo intuirlo in quella luce. Non so se lotta solo per salvarsi la pelle, per qualcosa che si stacchi dal semplice sopravvivere. Credo che lotti perché anche la lotta alla fine fa parte di quella profezia.



5. All’inizio, prima che Gregorio si ammalasse di una rara forma di malaria, che lo conduce sull’orlo della morte, si trova in Sud America, là dove ci sono civiltà sepolte e scomparse per sempre: solo per una questione di droga? per troppa sete di avventura nelle giovani vene?

Da una parte io credo che si trovi laggiù perché da sempre qualcuno deve andare via da un posto, non riesco a renderlo meno semplicistico. Dall’altra è laggiù perché ha seguito Leo, questo coetaneo arrivato a Fontanelle all’età di dieci anni e che ha allontanato il Colibrì dalle cose degli altri, dai giochi degli altri, l’ha introdotto nelle aree carsiche a cercare, da dilettanti archeologici, i segni. Alla droga Colibrì ci ha pensato laggiù, dopo il fallimento della spedizione, ha visto la possibilità di comprare per pochi dollari un prodotto che di là della pozzanghera avrebbe potuto vendere a cento volte tanto e l’ha fatto. Colibrì vive certo di cose lontane dagli altri, ma vive su questa terra: la materia è una calamita, i soldi, fino alla fine gli permetteranno o no, di seguitare a correre, di rallentare la conoscenza di quello che lui pensa sia il “dato”.



6. Gregorio ha un fratello, Gilberto: sono due personaggi agli antipodi eppure complementari. Gilberto è un uomo che definirei immobile, mentre Gregorio è un uomo che non può fare a meno del viaggio per il gusto di viaggiare. Sono entrambi un pezzo, un frammento della terra di Liguria, una radice e un vento: sono entrambi una tristezza sulle due facce di una uguale medaglia, quella del destino? E se sì, per quali motivi?

Gilberto è il solco provocato dalla macina, un uomo con un solo sogno - e Gregorio “Colibrì” sa che il sogno del fratello è a portata di realtà - essere l’uomo di una donna in una terra dove si è fino alla fine soltanto contadini. Gilberto è un uomo che insegue un premio e si aggrappa alle cose per “conservarle” come si cerca una compensazione.
Un uomo serio che quando capisce che il fratello vuole usare quei quattro giorni per non morire, ha paura, lui che non ha mai rotto un codice, ma accetta di rendersi complice, e si preoccupa che tutto sia pronto nei dettagli come se si trattasse in qualche modo anche della sua di salvezza. “Per quattro soldi tuo fratello, (vado a memoria) si vanta di averti portato via l’eredità” un vecchio confida al Colibrì l’ultimo giorno. La roba dunque, averla e conservarla, se l’altro sogno non si realizzerà mai, non resta altro. 



7. E Leo, il grande amico di Gregorio, forse morto in un carcere cileno, trattato alla stregua di un volgare tombarolo, chi è per Gregorio, per la sua storia, per quella sua vita (forse) perduta per sempre?
 

Leo è un maledetto, dal carcere cileno manda una lettera al padre ricordando quando passava davanti alla chiesa del paese e lo vedeva ancora inginocchiato sulle panche dopo il Vespro, e ne aveva l’impressione di qualcuno che fa gli “straordinari “. Una lettera che è una sorta di testamento, dove racconta di quando col Colibrì da bambini avevano tentato di scalare terrazze e di perdersi negli ulivi per non sentirsi inseguiti già allora dalla morte. Leo é uno che ha bisogno da sempre di sapere fin da subito se gli dèi moriranno con noi. Durante i quattro giorni Colibrì, attraverso la lettura di un taccuino giunto rocambolescamente nelle sue mani, scopre che Leo poteva salvarsi, ma il codice dei maledetti, che non possiedono altro che il senso dell’amicizia, l’ha costretto a cambiare i suoi piani.



8. Leo e Brì, in gioventù, avevano amato la stessa donna. E Brì, leggendo il diario di Leo scopre qualcosa che riempie un vuoto, un vuoto esistenziale che forse noi tutti ci portiamo dentro, al di là delle nostre esperienze felicità pene. Possibile che “In quattro giorni per non morire” ci sia anche questa chiave di lettura?

Sicuramente. Colibrì, mentre con la guida Valaverde e Leo fuggivano attraverso i canneti e i valloni peruviani inseguiti dall’esercito, era stato molto malato, la febbre altissima, lo trasportavano come un morto. Egli ricorda di quel periodo solo un benessere, una stranissima felicità, “disumana”, e leggendo il taccuino di Leo spera finalmente di sapere qualcosa di più su quella felicità. Di sapere cosa aveva visto di là del solco. Una delle poche cose che scopre è che da “morto” chiamava il nome della ragazza bellissima che aveva amato. La ritroverà, durante i “Quattro giorni”, donna e ingrassata, usata, ma tornerà ad amarla. Anche lei scopre d’esserne innamorata, forse come certe donne provano a innamorarsi di chi si innamora di loro.



9. Hai già qualche idea per il tuo prossimo romanzo? Se sì, giusto un accenno.

Uso un termine del mio amico Davide Longo: sto trafficando con alcune storie. In realtà son quasi tutte in dirittura d’arrivo, nel senso che hanno solo più un grande bisogno di pulizia. Sono storie liguri, non so scrivere altro, contaminate da fatti di desaparecidos argentini e da fatti di guerra nostrana. Provo a raccontare la guerra che ha vissuto la nostra generazione, io in Liguria altri altrove, e l’ha vissuta come un rumore; la guerra era davvero rimasta come un rumore, l’abbiamo sentito in casa, siamo usciti a guardare e la fonte di quel rumore non c’era più, ma il rumore era ancora nell’aria ed era molto più di un eco.
Ultimamente ho lavorato alla storia di un soldato tedesco che ha combattuto in Liguria e decide di tornarci da vecchio. C’é sempre stato un po’ il mito da noi in vallata, del vecchio turista tedesco che conosce troppo, davvero troppo bene, mulattiere e scorciatoie, portici e scalinate, per non esserci mai stato... In realtà vorrei scrivere di questi moli olandesi, dei barconi da pesca che vedo dalla mia stanza, delle dune e del vento olandese, dei boschi che per entrarci devi fare il biglietto, dei palazzi che dopo trent’anni vengono buttati giù, di quartieri fantasma che spariscono, degli alberi, le cui radici sono aggrappate al nulla, alla pura sabbia e il vento, un vento che non smette mai, e che prima o poi sradica alberi e erba. Vorrei scrivere di questo mondo sempre in movimento, dove tutto diventa, dove la sabbia scava e si ammucchia altrove e basta un filo d’erba per fargli formare una duna e una stagione per non trovarla più.      



10. Una domanda a bruciapelo, quasi maliziosa ma necessaria: a chi si rivolge “Quattro giorni per non morire”, chi dovrebbe leggerlo e perché?
 

Con un’arroganza di cui a tratti quasi mi compiaccio, ho sempre creduto che se mai fossi riuscito a dare al lettore il 10% della tensione che ho provato io nel leggerlo, forse avrei scritto una storia degna. Ecco, “Quattro giorni” é scritto per dare questa tensione. Da questo punto di vista credo quindi che sia un libro per tutti.      


Grazie Marino: sei stato molto gentile e disponibile sottoponendoti (volontariamente) alla tortura delle mie domande.
  Grazie a te,

Giuseppe, ti ho risposto davvero volentieri.
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