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Lena

Inserito Lunedì 08 ottobre 2007

Narrativa un racconto di Donato Altomare

1.

“E’ poco, è troppo poco.”
“Ma... ma cosa vuoi? E’ impossibile darti di più.”
“Credi? Eppure troverò chi possa darmi il piacere che voglio.”
“Non credo ci sia.”
“Certo non uno come te. Né uno di quei giovinastri che mi sbavano addosso ogni volta che metto qualcosa di attillato.”
“Lena, devi anche capirli. Quando tu metti qualcosa di attillato sei una minaccia alla salute mentale di un maschio. E poi io... io ti amo.”
“Buffo, ma non posso dirti di non amarti, anzi, se volessi amore starei molto bene con te. Ma io voglio di più, molto di più, non per l’anima, ma per il corpo.”
“Non sei normale... scusami.”
“Di che? Hai ragione. Addio. E non prendertela, prima o poi troverai una ragazza che saprà accontentarsi…”


2.

Cosa c’era di vero? Molto e poco al contempo. Gino era un bell’uomo, con una solida posizione economica, faceva l’idraulico e si muoveva soltanto per appuntamento. Inoltre l’amava visceralmente. Era stata costretta ad essere un po’ brusca, ma DOVEVA liberarsi di lui, lasciargli una qualsiasi speranza sarebbe stato un errore. Lo conosceva bene, bisognava colpirlo a fondo nell’orgoglio di maschio per troncare con lui. Sarebbe sparito per sempre dalla sua vita.
In fondo le dispiaceva. Lo amava, non troppo, ma lo amava. Sì, un po’ di piacere glielo procurava, ma soltanto un poco. E lei era affamata di piacere.
“Sì, e tu non ridere, dico a te che mi guardi dallo specchio con espressione di disapprovazione. Più ti guardo e più mi convinco che sei davvero bella. Con quei seni sodi e il tuo ventre piatto. Sei bella... lì, oltre lo specchio... sei davvero bella.
E’ soltanto te che amo.”


3.

L’inverno è freddo soltanto per chi è convinto che l'inverno dev’essere freddo.
L’inverno è come tutte le altre stagioni dell'anno, piatto, indifferente, banale insomma. E il freddo è soltanto un argomento di discussione in ascensore.
Il suo lavoro la costringeva ogni giorno a fare un lungo tragitto a piedi. Avrebbe potuto usare l’auto o, al peggio, prendere il tram, ma il moto era uno dei segreti di Pulcinella della sua bellezza. Il moto, una alimentazione senza rinunce eccessive ma equilibrata e una cura quasi ossessiva del proprio corpo. Pensava a quanto fosse facile avere un bel fisico e a tutte quelle idiote che si disperavano perché accettavano inconsciamente d'essere grasse e brutte, mentre in realtà erano DENTRO grasse e brutte. Qualcuno aveva detto che il fisico rifletteva l'anima, un po’ come quegli uomini padroni di cani che a furia di convivere con le proprie bestie ne assumevano la fisionomia.
In ufficio le solite coccole, i soliti complimenti. Per fortuna il padrone era una lei, una donna sui quarant'anni che portava molto bene, vedova, disinibita, che passava da un uomo all'altro con tanta fretta da essere costretta a usare un generico amore quando si rivolgeva allo spasimante di turno per non rischiare di sbagliare nome. Non che questo le creasse qualche problema, ma era pignola e perfezionista. Non temeva la sua concorrenza, anzi la padrona la considerava un'amica intima, una pari, in bellezza, anche se Lena, più giovane di quindici anni, era molto meglio.


4.

“Cosa fai stasera?”
“La passo... con una amica.”
“Benissimo, porto Mauro così siamo in quattro.”
“Va bene, aspettami alla fontana della stazione, verrò verso le otto.”
“Magnifico, le otto in punto.”
Era uno scherzo che faceva sistematicamente e si meravigliava come potesse funzionare ancora. Forse perché una volta un ragazzo follemente innamorato di lei le aveva detto che sarebbe stato meglio aspettare una notte invano presso l’orrenda fontana della stazione piuttosto che non andarci e vivere il resto della propria vita con il dubbio che lei avesse mantenuto la parola. Ma anche quella sera alla fontana qualcuno avrebbe maledetto la mendacità delle donne. Senza piuttosto prendersela con la propria stupidità.
“E come sarei potuta andare? Avevo un impegno con te, che sei imprigionata in quello specchio.”


5.

Fu quella notte che accadde.
Stava spazzolandosi delicatamente i capelli quando notò qualcosa. Avvicinò il viso allo specchio. Sembrava che la fronte fosse... fosse più ampia, e il naso più grande. Invecchio, pensò, e questo pensiero non la gettò nel panico poiché in fondo serbava la speranza che con l'avanzare dell'età la sua voglia sfrenata di sesso si attenuasse. Scosse il capo. No, l’età non c’entrava. Poi, le sue labbra, sembravano più lunghe. Aprì la bocca. Era più grande. Cosa diavolo stava succedendo? E le spalle? Non ricordava d’averle così larghe, il pigiama era teso come fosse stretto. Abbandonò la specchiera e andò in cucina. Bevve un lungo sorso d’acqua fresca, non gelata. Aveva bisogno di riposo, non di dormire, solo di riposare.
Andò nel bagno e si guardò. Il viso s’era come gonfiato. Il naso assomigliava a quello di un pugile suonato. Gli occhi si erano allontanati e la bocca s’era tanto allargata da sembrare sproporzionata.
Lanciò un debole grido di raccapriccio. Si guardò le mani, senza una vera ragione, e le trovò normali, come pure le gambe e i piedi. Sarà colpa dello specchio! Di TUTTI gli specchi? Era poco credibile. Abbassò i pantaloni del pigiama, che le stringevano i fianchi e la vita. L'ombelico non era più un forellino nella pancia, ma si era allungato trasversalmente.
Urlò ancora. Come una forsennata cominciò a togliersi il resto delle vesti e, nuda, si mise di fronte allo specchio a tutta altezza della camera da letto, il suo specchio. Urlò ancora e ancora. Aveva davanti a sé un’immagine deformata, come più bassa e grassa. Solo che quello specchio non era deformante. E la sua altezza restava la stessa. Dentro sentiva una tremenda tensione, come se fosse tirata da destra e da sinistra, e lei si allargava quasi fosse un pupazzo di gomma.
Urlò. Debolmente. La stanchezza stava impadronendosi di lei. La stanchezza e la fame. Corse in cucina e cominciò a mangiare tutto quello che c’era in frigorifero, dalla frutta allo yogurt, dal formaggio ai pomodori, dalle carote alle mele. E svuotò il vasetto della maionese e quello della marmellata, poi aprì lo stipo e mangiò il pane, mangiò l’aglio e il prezzemolo, mangiò le patate e le cipolle, crude, poi pensò che la pasta non cotta non dovesse essere poi tanto male e la mandò giù. Poi toccò alle scatolette di tonno, di pomodori pelati e di legumi. Leccò la conserva in tubetto e succhiò le uova per poi masticarne i gusci. E bevve, litri e litri d’acqua, bevve tutti i liquidi che fu in grado di trovare, compresa una mezza bottiglia d’olio d’oliva e una intera di Sambuca.
Infine non trovò più nulla di commestibile e la carne congelata era troppo dura. La mise nel forno per accelerare il suo scongelamento e tornò nella camera da letto. Tremando diede uno sguardo allo specchio. Gridò, più volte e a lungo, imitando il guaire di un cane ferito.
In mezzo alla fronte stava spuntando un altro occhio.


6.

La notte cercava di fuggire via, come sempre inseguita dal sole, ma quella sera decise di non andarsene senza conoscere la fine di quell’incredibile evento.
Lena era distesa sul letto. Fissava il soffitto con tre occhi. Due erano gli ombelichi e nel mezzo del petto si notava un gonfiore, come le propaggini di un seno che pian piano si sarebbe mostrato.
Lei però stava pensando a sua madre.
“Sai” le aveva confessato quando era diventata maggiorenne “tu dovevi avere una sorella gemella. Sì, eravate in due nel mio ventre, poi...” aveva scosso il capo e fissato un punto lontano “poi sei rimasta tu sola.”
“E mia sorella?”
Non le aveva risposto, né mai lo aveva fatto nonostante le sue frequenti insistenze...

Non mi disse più nulla sino alla sua morte. Avevo vent’anni. Mio padre si risposò quasi subito, disse che c’era bisogno di un’altra madre per me e io finsi di crederci e li sopportai per un paio d’anni finché non riuscii a trovare un lavoro. Non si mostrarono eccessivamente dispiaciuti quando me ne andai.
Ma le parole di mia madre mi rodono ancora.
Anche se adesso so di mia sorella…

Il terzo seno si era formato.
Camminando in modo goffo tornò in cucina. “Goffo? Direi che cammino come una vecchia puttana.”
La carne non si era ancora scongelata del tutto, ma non riusciva più ad aspettare, per cui cominciò a strapparle pezzi intorno riducendo le fettine a brandelli e rosicchiando il resto. Mangiò ben poco. Bevve ancora acqua, almeno cinque o sei litri di fila, senza staccare le labbra dal rubinetto, poi con gioia ricordò d’avere da qualche parte una scatola di biscotti. La trovò seminascosta tra i tegami. E trovò anche una bottiglia di vino e, nella grattugia, due croste di grana durissime. Divorò tutto. E bevve ancora acqua dal rubinetto. Infine tornò a letto.

Era stato grazie all'essersene andata via che aveva scoperto la verità. Suo padre le aveva detto di portarsi via uno scatolone con tutte le sue cianfrusaglie, pagelle delle elementari e delle medie, diploma di cresima con la medaglietta, vecchie fotografie e altra robaccia. E c’era anche una cartella clinica, vecchia di ventitré anni. Era di sua madre, quand’era incinta.
Tremando per l’eccitazione l’aveva letta. E il gelo s’era impadronito del suo corpo e la disperazione della sua anima. Inutilmente i suoi occhi, l’unica cosa ancora vivente, erano tornati su quelle poche righe scritte con grafia chiara. Rilesse tutto tre volte, sperando d’aver frainteso il senso della relazione. Ma non era così. Il dottore aveva scritto che si trattava di un caso davvero insolito, e per questo aveva coniato un neologismo: FETOFAGIA. Spaventoso!
Sì, aveva divorato sua sorella, lì, nel ventre della madre, le aveva persino spolpato le ossa tenere. E tutto per la semplice ragione che la genitrice non forniva cibo sufficiente per entrambe. Una doveva soccombere perché l'altra potesse sopravvivere. Non voleva figli, sua madre, e quando il padre glielo aveva imposto aveva accettato, cadendo però nell’anoressia. Mangiava pochissimo e mal volentieri, e quasi sempre rigettava tutto.
Lena rise sul letto.

Già, mi son mangiata mia sorella perché quella stupida di mia madre non riusciva a ingoiare cibo per entrambe, riducendosi a uno scheletro ambulante.

Così la fame che stava provando in quel momento l’aveva torturata un’altra volta. Scosse il capo pesante. No, non poteva essere un ricordo prenatale?
Si morse le labbra. I denti le parvero di più.
Si alzò per l'ennesima volta e, quasi saltellando, tornò in cucina. La carne si era del tutto scongelata. L’addentò strappandole brandelli sanguinolenti e li ingoiò senza masticare. Lo fece con furia animale leccandosi il sangue annacquato che le colava dalle ampie labbra. Bevve ancora, sempre incollandosi al rubinetto e lasciò che il liquido tiepido e insapore le scivolasse tra la lingua quasi doppia e il palato. Poi fu la volta dello zucchero in pacchi, degli aromi nei vasetti, infine frugò tra i rifiuti. Trovò bucce e torsoli di mela divenuti marrone. Foglie mollicce d'insalata, pane raffermo e un po’ di peperoni crudi tenuti troppo in frigo e andati a male. Un broccoletto e un raspo d'uva. Ingoiò tutto e tornò a bere. Mandò giù un pacco di riso crudo e trovò persino una vecchia confezione di carne in scatola per cani che le avevano regalato per prova al supermercato. La mangiò senza provare il minimo disgusto. Ma aveva ancora fame. C’era una piantina dalle foglie larghe. Le masticò succhiando la parte dura. E mentalmente ringraziò il cielo che casa sua fosse pulitissima perché era certa che avrebbe ingoiato persino gli scarafaggi.
Tornò infine a letto. Non riusciva più a camminare. Qualcosa si stava formando tra le gambe. Non volle pensare a cosa fosse, provava una specie di ribrezzo e d’orrore al pensiero del suo splendido corpo deformato.
Pianse. Poco, non poteva sprecare liquidi. E finalmente si addormentò.
E sognò. Sognò di partorire la sua gemella, sognò di soffrire le pene dell’inferno, dolori indicibili per dare alla luce non una bimba, ma una donna fatta, grande quanto lei. Che le rassomigliava in tutto e per tutto. Urlò, e capì che stava urlando non soltanto nel sogno e che stava soffrendo non soltanto nel sogno. Urlò dimenando il pesantissimo corpo.
O i pesantissimi corpi. E il dolore raggiunse livelli parossistici.
Poi, di colpo, tutto cessò.
Esausta si addormentò davvero. Non le riuscì di sognare.


7.

La sveglia la scosse. Aprì un occhio. La radio-sveglia le stava imponendo d'alzarsi. Erano le sette di un altro banale giorno. Fece per sollevarsi dal letto ma subito ricadde. La testa le girava paurosamente e si sentiva svuotata di forze. Forse questa volta aveva esagerato con la dieta di mantenimento. Un po’ di zucchero autentico non l’avrebbe fatta diventare obesa di colpo.
A fatica riuscì a mettersi in piedi e a correre in bagno. Era nuda, aveva la pelle tesa e sudata, minuscole goccioline le ricoprivano l’intero corpo. Rabbrividì. Che sogno balordo, lo ricordava tanto da apparirle vivido dinanzi agli occhi quasi l’avesse vissuto veramente, tremenda sensazione quella di gonfiarsi sino a...
Orinò in quantità insolitamente abbondante, poi tornò in camera da letto. La giornata era buia, nuvolosa. Accese la lampada del comodino e si diresse verso lo specchio. Si guardò attentamente. Era quasi felice di trovare il suo corpo bello e sano come sempre, quasi per un istante avesse temuto davvero d’essere deforme. Si mise di fianco. E si accorse del segno, era lungo e rossastro, pareva una specie di cicatrice. Doveva essere stata colpa del lenzuolo, le era successo altre volte, specie dopo una notte agitata. Presto il segno sarebbe scomparso.
Fu allora che la vide. Alle sue spalle, che fissava lo specchio... e lei.
Si girò di scatto spalancando gli occhi e la bocca e scuotendo il capo come a negare la sue esistenza. Aveva davanti a sé la propria immagine, una donna in tutto e per tutto identica. Spaventatissima fece un passo indietro ma il freddo vetro respinse il suo corpo tiepido.
“Chi sei?”
“Lena.”
“No, Lena sono io. Che ... che scherzo è questo?”
Ma l’altra aveva cominciato ad accarezzarla. Poi si era chinata e alternava piccoli morsi a sapienti baci.
Lena si lasciò sfuggire un gemito. Lo spavento aveva rapidamente lasciato il posto ad un incredulo piacere reso più eccitante dalla pazzesca situazione.
“Quante volte hai sognato di fare l’amore con te stessa? Quante volte hai desiderato di trovare una compagna che ti fosse il più possibile simile per giochi follemente piacevoli!”
Sapeva che quelle parole erano assolutamente vere, anche se non capiva come quella donna, quella immagine speculare che aveva di fronte, fosse riuscita a saperlo. E in quel momento il suo sogno si era concretizzato. E non con una donna simile, non con una che le rassomigliasse, ma con quella che le pareva un’altra se stessa.
Restarono soltanto una frazione di secondo a fissarsi, poi le due labbra si cercarono. Le braccia si confusero. Finirono sul letto disfatto. L’una cercò nell’altra il profumo della pelle e scoprì il proprio profumo, l’altra cercò il sapore dell’una e trovò il proprio sapore. E tra i gemiti di piacere soltanto una parola: “Lena... Lena... Lena...” sussurrata dall’una all’altra e dall’altra all’una.

“Sono sicura che è tutto un sogno.”
“E' un sogno... forse...”
“Non può essere che un fantastico sogno.”
“Non può essere...”


8.

Quel giorno non andò in ufficio. Telefonò alla sua capo giustificandosi con mestruazioni particolarmente dolorose. Sapeva che era una scusa infallibile proprio perché la sua datrice di lavoro era soggetta a mestrui dolorosi.
“Resta a casa per oggi, cara, non preoccuparti. Beati gli uomini che non hanno di questi problemi.”
“Già, ma loro dicono che devono radersi ogni giorno.” Dall’altro capo del telefono la donna rise di gusto e chiuse la comunicazione. Era fatta così.
Passarono l’intera giornata a letto, soltanto il tempo di mangiare un’incredibile pranzo ordinato in rosticceria. Per dieci persone.
“Cosa festeggiate?” aveva chiesto ingenuamente il fattorino.
“Una nascita” aveva risposto maliziosamente Lena, poi l’aveva sfiorato involontariamente, facendo sudare il ragazzo. Era stata costretta a spingerlo energicamente fuori.
A letto l’altra stava aspettando in silenzio. Avevano deciso una breve tregua. Per assalire il vassoio con venti rustici di gusti vari e tartine e panzerottini e salatini con acciuga e capperi e caprese e salmone bollito e affumicato e pesce spada marinato e alici marinate e focaccia calda e olive pugliesi e pomodori secchi sott'olio e salame affettato e prosciutto crudo. Il tutto irrorato da spumante secco.

“Ma come? Perché? Da dove? Quando?”
“Ha importanza?”
“Forse sì, però ho paura di saperlo, non dirmi nulla.”

E Lena aveva continuato a mangiare sotto gli occhi attenti e lucidi della sua impossibile compagna che invece piluccava quasi non le interessasse il cibo.

“Non mangi?”
“Più tardi.”
“Fa’ come vuoi. Io ho una gran fame.”
“Anch'io.”


9.

La notte tornò di malavoglia. Sollevò la gonna scura fatta di tulle stellato per muoversi meglio tra le antenne e cercò in ogni modo di passare inosservata, ma i lampioni se ne accorsero e si accesero, le discariche ripresero a bruciare impestando l’aria della periferia e alcune fabbriche smisero di fabbricare le nubi con le loro ciminiere. La notte non si fermò, continuò con passo veloce, ma le ore se ne accorsero e si trasformarono in miele e melassa e rallentarono la sua corsa costringendola a muoversi lentamente.
Allora la notte, rassegnata, lasciò cadere giù la sua gonna, diede un paio di colpetti al tulle e attese che quello che doveva accadere accadesse.

Lena s’era avvicinata alla finestra. L’altra le era giunta silenziosamente alle spalle e l’aveva abbracciata. “Hai ancora fame?”
“Soltanto un po’.”
“Adesso anch’io vorrei mangiare.” Le diede un leggero morso sulla spalla strappandole un gridolino di dolore misto a piacere. Il morso crebbe d’intensità finché un filo di sangue scivolò sulle spalle di Lena.
“Mi fai male.”
“Voglio farti male.”
Allora Lena si girò. Aveva gli occhi sperduti.


10.

Lo specchio ebbe come un fremito. Parve ondulare, raggrinzirsi per poi tornare normale. L’altra si alzò. Lena dormiva con espressione beata. Si alzò come sfiorando il pavimento e mosse alcuni passi verso lo specchio. Per fermarglisi di fronte. Lo specchio ondeggiò. La parte argentata prese a staccarsi e a venir fuori raggrinzendosi. L’altra non si mosse. E lo specchio l’avvolse ricoprendo ogni centimetro della sua pelle, formando migliaia di sfaccettature che rilucevano allegramente ad ogni movimento, persino al solo respiro. L’altra allora si girò e tornò verso il letto. Restò immobile per qualche attimo a fissare Lena come a decidere il da farsi, infine tornò al suo posto sopra le coperte.
Lena, di spalle, si mosse. Aprì gli occhi e senza girarsi disse: “Sei tu?”
Non ebbe risposta. Allora a fatica si girò. Era troppo stanca per gridare. Si limitò a dilatare gli occhi e ad emettere un gemito strozzato. “Cosa sei adesso?”
L’altra non rispose. Lena allora la sfiorò. Ritirò la mano di scatto. L’altra aveva un corpo duro. E freddo.


11.

Fu da quel preciso momento che cominciò a sentirsi intontita, le riusciva difficile mettere a fuoco gli oggetti che la circondavano. Si sentiva debole, incapace persino di andare in bagno o sollevare la cornetta per avvisare l’ufficio. La sua compagna era distesa sul letto, immobile, tanto che le migliaia di microscopici specchietti che la formavano non rilucevano, apparendo come privi di vita. Lena pensò alla sfera delle discoteche quando il locale è chiuso, che si trasforma in un oggetto di cattivo gusto. “Anche tu non ti senti bene?” si rese conto di quanto idiota fosse una simile domanda, ma aveva bisogno di parlare, almeno per capire se ne avesse ancora la forza.
“Noi non siamo in due, ci sei tu e ci sono io, ma NON siamo in due.”
“Non sono in vena d’ascoltare queste idiozie” perché le lacrime salivano prepotenti? “e non ho voglia neanche di ascoltare te. Se non ci sei sta’ zitta.”
L’altra non fece commenti.
“Cosa mi succede? E’ come se un verme mi rosicchiasse dall'interno. Sento il cuore rallentare i battiti. E sudo. Sto per svenire. Ho bisogno di un dottore.”
L’altra fece finta di non udirla.
“Telefona... io non ci riesco, mi sembra che il braccio pesi tonnellate.”
L’altra non si mosse.
E uno specchietto si incrinò e, con il caratteristico rumore, si frantumò in frammenti microscopici.
Lena urlò. Sul suo braccio si era improvvisamente aperta una ferita che sanguinava lentamente. Altri due specchietti esplosero e due spruzzi di sangue macchiarono il candido stropicciato lenzuolo. “CHE SUCCEDE?” Gridò terrorizzata mordendosi le labbra per il dolore.
E la stanza si deformò. Le pareti presero a ingobbirsi verso l’esterno, gli spigoli scomparvero e l’ambiente sembrò l'interno di un uovo. Lena sentì che non era più distesa sul letto, ma galleggiava in un liquido denso. Udì altri vetri frantumarsi e sentì altre fitte nel corpo con il sangue che schizzava via, ma che, invece di cadere giù, si insinuava verso l’alto come volute di fumo. Le varie tracce si intrecciarono tra loro come piccole funi vermiglie a formare una specie di grosso cordone che si incurvò e si infilò nel ventre dell’altra.
Lena non riusciva più neanche a stupirsi. Vide i cristalli della sua gemella frantumarsi ad uno ad uno e sotto comparire la pelle liscia e rosea mentre lei si sentiva letteralmente svuotata. Poi gli occhi le furono risucchiati ed ogni cosa della bocca, e fu la volta della carne in un fragore di vetri rotti, si liquefece e attraverso il sanguigno cordone fu risucchiata dall’altra. E gli intestini, e le ossa furono frantumate in minutissimi pezzi e seguirono la scia del resto di quello che una volta era stato il mirabile corpo di Lena.


12.

La notte era tornata con il suo vestito di tulle un po’ logoro e le sue scarpette da ballo passate di moda. Ancora una volta vide quello che stava accadendo sulla Terra con la complicità di suo figlio, il buio, e volle scappar via, ma i rami degli alberi si aggrapparono alla sua veste e le antenne dei televisori e i campanili con le croci e le ciminiere con i parafulmini. La trattennero giusto il tempo che tornasse il sole, poi finalmente la lasciarono andare, bellissima donna un po’ appesantita dagli anni.

Nella stanza da letto il giorno scoppiò quando un raggio di sole rimbalzò tra i milioni di minuscoli frammenti di specchio che ricoprivano il pavimento.
La ragazza si alzò. Passò la mano sul suo corpo, incuriosita e soddisfatta lo riconobbe centimetro dopo centimetro.
Lo specchio era nero. Dietro però ci fu un fremito e una mano si delineò dall'interno, come stesse tendendo in fuori un drappo ben teso.
“Era nei patti, sorella, non lo ricordi?”
La mano tese ancor di più il drappo in avanti.
“Il sorteggio è stato infame per me, prima saresti vissuta tu, poi anch’io. E non fingere di non ricordare, eravamo entrambe nel ventre di nostra madre.”
La mano si fece indietro, poi scivolò giù e scomparve. Soltanto, si notava un’ombra più scura laddove avrebbe dovuto esserci lo specchio. Aveva il capo chino.
“Tocca a me vivere, ora. Ti prego, non volermi male, anch’io son vissuta nel buio per tutti questi interminabili anni. In attesa.
Addio... no, arrivederci, prima o poi torneremo insieme.”
Uscì di casa. Giù per la strada sentì il suo corpo forte e giovane. Respirò l’aria per la prima volta e la trovò profumata nonostante fosse sempre aria di città. Mille volte aveva cercato di immaginare il suo sapore.
Era viva... VIVA finalmente.

Il sole dormicchiò per l’intera giornata.
Sapeva che al suo sparire qualcuno avrebbe frenato l’inutile fuga della notte.


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