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Inserito Domenica 23 aprile 2006

Narrativa un racconto di Andrea Aroldi

Finalmente ho un minuto libero e posso pensare un poco da solo, pensare a mente aperta, tranquillamente. E’ passato molto tempo da quando l’ho fatto l’ultima volta, ma poco importa, certe cose non si possono dimenticare fanno parte dei meccanismi che regolano il funzionamento del nostro cervello.
E’ come andare in bicicletta o nuotare, quando hai imparato non si può più dimenticare, anche se questo esempio specifico non calza più vista la mia nuova situazione, ma non importa, non tutto quello che è perso è dimenticato.
Troppe volte avevo temuto di non poter più provare a pensare autonomamente, anche solo di poter sentire la mente vagare libera, serena.
Eh, pensare, che bella cosa. Purtroppo non tutti sanno cosa vuol dire pensare un ò, credono che sia come il mal di denti e non lo vogliono provare. Solo noi cultori del libero pensiero sappiamo quello che perdono.
Ecco, vedete? Sto già iniziando a togliere la ruggine che mi sono lasciato stratificare addosso.
La colpa no è mia, tutt’altro!
Quante volte ho visto questi caratteri, sempre così uguali riga dopo riga, foglio dopo foglio, racconto dopo racconto. Mi hanno sempre affascinato così come mi affascinano oggi che li vedo, come dire, dall’esterno.
Quello che però inizialmente catturava la mia attenzione era lei, la creatrice di questi ordinati caratteri snelli, così stranamente impersonali nella loro imperfezione: la macchina per scrivere!
Dovunque entrassi, o sostassi per far riposare le mie stanche membra, …quanto tempo che non usavo questo stile! …era sempre lei che mi colpiva se era presente. Entravo e mi bloccavo, trattenevo il respiro per non turbarne il sonno. Mi avvicinavo allora lenta,mente e l’ammiravo ronzare, attendendo un’idea da materializzare sulla carta bianca.
Noo, che cosa state pensando! Non sono mica uno di quegli ignorantotti caduti dalle montagne che rimangono rapiti dalle meraviglie del mondo moderno.
Tutt’altro! Io sono uno scrittore e quindi ELLA rappresenta il mio ferro del mestiere.
Conosco perfettamente la sua storia, cosa credete, sono uno che si documenta.
Eppure…restava sempre qualche cosa di magico, di estraneo al panorama della sensibilità materiale, della mia almeno. Sebbene fossi scevro da ogni superstizione religiosa, la macchina per scrivere restava un mezzo medianico, una Messa Nera Culturale, il passaporto del Vivere Sereno dove la gente è… creata ad arte e quindi molto simpatica, se vi và.
Io scrivevo cose fantastiche, non bellissime intendo dire, ma cose che non erano di certo reali e attinenti al nostro secolo. Correvo verso nuovi orizzonti spinto dalla mia esuberante fantasia, creando sempre nuovi monti, uno più colorato dell’altro.
Era la mia macchina per scrivere che li creava!
Il creare con essa aveva qualche cosa di sessuale, vedevo i martelletti che recavano i caratteri come tante gambe che correvano sulla carta freneticamente mentre io pigiavo i tasti, tante gambe snelle e frementi. Lo sgorgare della creazione mi faceva frenetico sui tasti, che pigiavo sempre più velocemente, sempre più forte, sempre più forte, fino all’orgasmo creativo: il capitolo era terminato e crollavo spossato sullo schienale. Allora la accarezzavo la curve armoniosa anteriore, sfiorando l’apertura dove i martelletti avevano sede, infilando il dito medio…lasciandolo esplorare il meccanismo spossato.
Ricordo che una volta ingaggiai una specie di gara con la mia fantasia: avevo scritto due romanzi contemporaneamente, riuscendo a farli risultare l’uno più pazzo di… di me credo e del secolo in cui vivevo. Purtroppo la realtà sconfigge sempre la fantasia, da essa ci si aspetta che sia prevedibile ma neanche quella lo è e ci rimaniamo male.
Ricordo che prima di iniziare un nuovo racconto mi fermavo a contemplarla, la mia scassata creatrice di meraviglie, di popoli interstellari baciati da una saggezza che non riuscivo, neanche adesso però, a riscontrare nel mio mondo.
La sua immobilità non mi creava problemi: me la immaginavo come una bella donna legata alla testiera di un letto, nuda, i fianchi generosi come generoso era il seno, portando al collo un collarino di pelle nero con scritto OLIVETTI in lettere argentate, le gambe aperte lasciavano vedere la fessura depilata dell’inguine, dove io tra poco avrei spinto le mie dita per farle provare sensazioni che solo io sapevo darle.
Rimanevo ore a fissarla, smanioso di iniziare, ma attendendo che il miracolo avesse inizio, che l’onda colorata di soli mai visti mi assalisse.
Guardavo la tastiera e pensavo… alla fessura carnosa che attendeva di essere stimolata. No, in fondo non pensavo a niente, troppa meravigliato per strutturare qualche cosa di sensato.
Quando poi creavo era lo sgorgare di una fonte serena, fresca e ovviamente incontaminata, dove le fate andavano a bagnare le labbra virginali, mentre gli elfi ballavano nelle notti di maggio quando la Natura, loro unica padrona, si risvegliava dopo essere stata posseduta dal padrone Inverno, ingravidandola di nuova vita.
Quanti fogli ha divorato la mia scassata macchina, quanti racconti ha abortito perché non sufficientemente magici. Questo aveva di speciale la mia fedele amica: non poteva portare a termine un racconto che non avesse il potere di suonare piano nella notte, di brillare di luce amica per i nottambuli.
Lei era unica.
Oggi me ne sono accorto più di allora, perché ancora una volta sono passato dalla parte dello scrittore, oggi le mie dita corrono sui tasti consumati e poco chiari di questa macchina.
Aveva una personalità un po’ troppo prepotente, troppo autoritaria per poter rimanere zitta, ferma.
Anche se me la immaginavo legata in mio potere, era lei che sapeva condurre il gioco, prendendomi più dentro di quanto io potessi credere di possederla.
Oggi però non può durare in eterno, terminerà anche questa parentesi, tra un battito di ciglia tutto sarà terminato, chissà, per sempre. Anche il nostro cuore, così regolare nel suo cammino porta in se tutta la precarietà della vita: l’intervallo che esiste tra un battito e l’altro. Quello spazio morto ci fa pensare a un intervallo di certo molto più lungo che ci aspetta alla fine della strada, ci spinge ad afferrare un pezzo di Tempo, il nostro, e viverlo intensamente.
Poco importa, io posso tornare da dove sono venuto, dove nessuno aveva mai pensato di andare a nascondersi.
Non è stato facile arrivarci, ci sono voluti anni per fare il grande passo che nessuno, che io sappia, aveva mai fatto.
Brrr, com’è freddo questo posto, com’è grigio questo sole, come sono smunti i colori dei fiori. Qui tutto parla di tristezza, di noia portata aventi al prezzo di molte fatiche, anche se la noia si chiama… vita.
Meglio che me ne torni al caldo dei miei soli multipli, alla morbidezza degli orizzonti viola e azzurri, dove i monti sono abitati da troll benigni e le pianure governate da buffi e rissosi gnomi, troppo pasticcioni per essere cattivi.
E’ il io nuovo mondo.
Come ho fatto a raggiungerlo? Cari amici, non è stato facile come vi ho detto, anche se vi sono entrato in un attimo, proprio dopo quel battito di ciglia e mi sono sentito bene, dopo anni che non provavo cosa volesse veramente dire BENE.
Quel giorno stavo osservando per l’ennesima volta la mia macchina per scrivere e ne ero affascinato, come la prima volta. Ne osservavo i particolari più minuti, le molle, gli ingranaggi, le ruote dentate che scorrevano le une sulle altre, come un amante incantato che osserva attentamente le fattezze della sua amata, scoprendo particolari noti ma sensuali come durante il primo amplesso. Pensavo che quei caratteri avevano percorso molti anni luce da quando ne ero venuto in possesso.
Mai mi avevano tradito, mai mi avevano lasciato a metà di un racconto quando ormai il miracolo di luce fatata aveva raggiunto il suo apogeo ed ero prossimo all’orgasmo.
Le ero molto grato e lei lo sapeva, sentivo che era così. Era come a volte animata di vita propria, mi faceva muovere le dita a velocità superiore alle mie capacità, sono solamente un dattilografo autodidatta.
Era vecchia, ancora sensuale, ma iniziava ad essere stanca. A volte si inceppava, ma io la scusavo, conscio del cammino che aveva già percorso.
Ecco a cosa pensavo quel giorno e mentre le ciglia calavano il sipario sui miei occhi affascinati… mi sono trovato dall’altra parte, non più compagna d’avventure ma ora arto metallico creatore!
Quanto ho pianto, silenziosamente, quel giorno, per tristezza e felicità.
Il mio nuovo essere rese omaggio a colei, ancor oggi sono fermamente convinto che fosse una lei, che aveva animati prima di me i tasti del macchinario dattilografico e ha urlato di giubilo per essersi impossessato di una nuova dimensione della felicità.
Osservai affascinato il mio corpo rimasto vuoto dal mio essere immateriale rianimarsi, alzarsi impacciato, cadere e strisciare per rimettersi in piedi.
Lo vidi rimanere a quattro zampe a osservarmi, a osservare la macchina per scrivere, sorridermi e annuire.
Ormai non ero più io, lo scambio era avvenuto.
Vidi quell’io che non ero coricarsi sulla schiena, aprire le gambe, slacciarsi i pantaloni e scostarsi la mutanda per farmi vedere… qui le mani ebbero un tremito di sorpresa quando il pene semi eretto uscì dall’indumento. Lo esplorarono con cura, saggiandone la misura, la consistenza via via più marcata.
E’ per questo che credo che fosse una lei, voleva regalarmi la visione della sua vagina, credeva di essere tornata nel corpo che aveva lasciato chissà da quanto tempo. Invece s’era ritrovata tra le mani il mio pene che si stava inturgidendo.
Dopo avermi regalato la visione del suo primo e nuovo orgasmo, mi lasciò e non vidi più quell’animo femminile racchiuso nel corpo maschile che mi apparteneva.
Da allora i miei mondi non uscivano più dalla mente per fissarsi indelebilmente sulla carta, privandomene. Ora sono io che stampo i caratteri sul supporto materiale di legno e stracci lasciato a macerare. Io creo il mondo e lo vivo ancor più in prima persona.
Oggi però sono voluto uscire per vivere una nuova dimensione, scrittore e generatore di pensieri: ma non ne sono soddisfatto. Per quanto sembri strano mom è completo come mi aspettavo, l’essenza materiale della persona ha preso il sopravvento su quella… come dire… immateriale, spirituale. Questi termini non sono propriamente azzeccati, poiché io divento materiale all’interno di quello che mi viene fatto scrivere. Sono io che materializzo nel mondo materiale quello che esiste nel mondo immateriale della mente di uno scrittore, io vivo a fianco delle avventure che mi vengono fatte scrivere.
E’ meglio che ora ritorni da dove sono venuto, sento i passi del mio scrittore che si avvicinano alla porta.
E’ un bravo scrittore, anche se ha la passione per le avventure cruente della pirateria spaziale, così piene di personaggi truci.
Sì, ora è meglio scappare e far sparire questi fogli.
Addio.

Mentre Edgar apriva la porta avvertì immediatamente uno strano odore, non fastidioso, solamente strano.
Era l’odore dei prati in fiore, dell’erba appena tagliata, di linfa che piano sgorgava da alti abeti. Anche la luce della stanza era forte, diversa. Sembrava che al sole avessero tolto un velo.
- Bah, sarà –
Posato il giubbotto su di una poltrona si diresse al tavolino per dar sfogo alla sua fantasia. La sua macchina per scrivere lo attendeva come sempre nel luogo più illuminato della stanza, come su di un altare dedicato a qualche divinità. Lo attendeva, veramente, perché per una strana sorta di gioco visivo gli mostrava sempre il fronte, i tasti allineati pronti per essere usati, la voragine anteriore pronta a animarsi del balletto di gambe frementi.
- Oggi, caro mio, andremo lontano, molto lontano e mi devi essere d’aiuto, sei il solo amico che ho –
Estratto il foglio dal cassetto lo inserì tra le labbra del rullo che subito lo portò sulla linea di partenza, all’Astroporto dell’Immaginazione.
Appena Edgar ebbe sistemato il foglio e regolato la spaziatura, fece ruotare il pomello zigrinato e portò il bordo superiore del foglio poco sopra il mirino centrale. Aveva molte cose da scrivere e non voleva assolutamente sciupare spazio, risparmiando così i fogli.
- Bene, andiamo a incominciare –

I fogli che voleva risparmiare finirono tutti nel cestino, perché il truce Capitano Donaldson non poteva assalire con la sua famosa nave pirata la flotta mercantile, disarmata per giunta, del pianeta Phertilis (grande fantasia vero?), per rubare tutto il raccolto.
Non poteva certo passarla liscia!
In qualche modo giustizia andava fatta!
Solo di Sara si doveva parlare, la bella figlia del Duca, sposa di Fin l’elfo della Foresta Incantata, che…

P.S. Tra l’altro aveva un seno grande come…

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