recensione di Alessandro Faes Belgrado a "Al di là della vita"
Martin Scorsese, ultimo atto. L'uomo e l'altro da sé. Fede oppure, più semplicemente, sofferenza.
Con la coppia Nicolas Cage-Patricia Arquette
New York, ai giorni nostri. Frank Pierce, paramedico. La sua casa, un'ambulanza. Hell's Kitchen, il suo quartiere. Un'ossessione, semplice quanto dolorosa: lo morte. Lo morte altrui. La nera signora nei cui confronti tutto è inutile.
Quanto tempo è passato da Taxi Driver? Sembra poco. Eppure la distanza si è moltiplicata. La speranza, la fede, pare essere la stessa. Come l'umano desiderio di controllare l'esistenza altrui. La speranza, altrimenti vana, di poter intervenire nel Grande Disegno. Il quadro nel quale Scorsese segna Al di là della vita lascia tuttavia poco spazio, fin dai primi minuti. Come l'universo allucinato, senza freni, di una città pronta a macinare esseri umani. Un universo nel quale Frank (Nicolas Cage) ci viene mostrato per sole 72 ore. Tre giorni nei quali la vita (la passione, il desiderio) si mescola inevitabilmente alla disperazione (realtà). Tre giorni nei quali il cinema (in questo caso non-finzione) accompagna per mano lo spettatore in una storia non rappresentata. Semplice cadenza del tempo.
Questo il film: ovvero tutto ciò che non vorremmo vedere raccontato sul grande schermo. Perché, probabilmente, non vissuto (l'abitudine alla televisione, E.R. insegna, è dura a morire). Perché rimosso. Al di là della vita, rappresentazione di un tempo nel quale la speranza salvifica pare ritornare, finalmente, nelle semplici mani dell'essere umano.
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