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Sigourney Weaver, cuore di mamma e mitra di Rambo


di Maurizio Porro


Quando si sveglia, dopo aver dormito 57 anni ibernata nello spazio, il capitano Ripley, cioè l’unico sopravvissuto al primo Alien, il gotico ed intelligente kolossal firmato da Ridley Scott nel ’79, non riceve buone notizie: l’incubo della creatura mostruosa imbarcata sul "Nostromo" è sempre presente, il gatto ringhia e i contatti con il pianeta Archeron, dove lei sbarcò coi suoi scalcinati astronauti, si sono interrotti.

Inizia quindi con mali presagi questo Aliens (con la s perché ormai sono tanti, qualcuno insinua che si tratti di tutti i cittadini non americani, insomma come dire "tutti alieni meno noi", ma speriamo sia un pettegolezzo sbagliato) durante i cui 137 minuti Sigourney Weaver sbaraglierà definitivamente le mostruose, orrende e bavose presenze. Col cuore di mamma e il mitra di Rambo, dopo aver salvato una bambina, unica sopravvissuta del pianeta ala strage compiuta dagli alieni, e dopo aver driblato i perfidi inganni del capo dei marines spaziali che l’accompagnano (donnette, rispetto a lei), si rivolge alla Grande Mamma Aliena e le dà della puttana: dopo di che indosserà una gigantesca corazza metallica (di così enormi neanche Ronconi, in teatro, ne ha mai fatte) e farà fuori questa orribile e dentona maxi "cosa" di un altro mondo. Si salvano soltanto lei, la Rambolina con un MG 42 a tracolla, e la bimba terrorizzata: gli altri non meritano (c’è infatti chi vorrebbe speculare), e l’androide, tanto è un uomo artificiale che, anche tagliato a metà, darà alla fine il suo aiuto prima di essere risucchiato nello spazio eterno e amen.

Aliens di James Cameron, costato la relativamente modesta cifra di 18 milioni di dollari (in USA ne ha già incassati più di 60), progettato con lo story-board elettronico, agghindato dalla presenza di due "futuristic conceptual artists" (Cobb e Mead, per i controlli nel futuro), è una delle più grandi sfide del cinema agli esseri di un altro pianeta, ma il bello è che il film funziona nelle sue reazioni primordiali e non nei suoi fasti tecnologici, nel primitivo e bellissimo «décor» delle sue caverne metalliche e non nei noiosi «bip bip» e nei numerini che si srotolano sugli ormai insopportabili computer.

Piace, insomma, se è un infernale memento, un appunto di ancestrali paure dell'aldilà e dell'aldiqua, ma non come insostenibile metafora dei marines americani nel Vietnam o altrove.

Piace cioè quando James Cameron - già autore di uno strepitoso film di fantascienza, Terminator - si mette in fuga con la cinepresa che si immagina attorcigliata al corpo, con la musica potente, col montaggio folgorante, coi colori neri e rossi e cupi che la fotografia rende luminosi e minacciosi, quando cioè l'autore se ne frega della storia e parte sul casello subliminale dell'autostrada del visionario totale.

Qui - si tratta degli ultimi 45 minuti di film -, Cameron ha un occhio di cinema eccessivo eppure essenziale, concreto e pauroso come un gioco a nascondino, ci convince subito che il suo incubo è il nostro e che anche l'altro mondo si spiega nella ricca cornice del suo fotogramma. Si sarà anche capito che Aliens - accolto da folle giovanili entusiaste a Venezia Notte - non è tutto a questa altezza allucinogena: fatica a mettersi in moto, si prende un po' troppo sul serio, è più che parco nei dialoghi, ha una zona centrale a encefalogramma non piatto, ma insomma neppure vivacissimo. Tutto però in attesa del gran finale di orrori, in cui scarichiamo anche vecchie nevrosi rimaste in lista di attesa, tanto la logica è fuori schermo e l’inconscio detta tutti i suoi comandamenti.

Sigourney Weaver, attrice quasi giovane e bella donna di stampo e cultura radical chic, più "off" che «in» nonostante "Ghostbusters", vende un po' d'anima e di carriera al diavolo-Rambo (l’idea che vince è proprio quella dell'eroe al femminile.), e riesce ad ottenere sul suo volto tutti gli effetti specifici voluti, compreso quello di non regalarci neppure il sospetto di un sorriso.






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