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Dramma della gelosia al ritmo di flamengo


di Giovanni Grazzini


Nozze di sangue ci colpì, Carmen story ci conquistò.

L'amore stregone, ultimo anello della trilogia gitana di Saura, ci lascia perplessi. Lo dicemmo nel maggio scorso dal Festival di Cannes, e qui ripetiamo che a parer nostro il regista spagnolo non ha ritrovato le corde giuste, o per lo meno quel tocco per il quale pienamente cogliemmo la grazia impetuosa del flamenco. Va detto che stavolta l'impresa era più difficile, perché l'opera scritta da De Falla con Martinez Sierra (presentata nel 1915, e rielaborata nel '25) dura meno di trenta minuti, e dunque bisognava dilatare l'azione e la musica di almeno un'ora per raggiungere la misura del lungometraggio. Ma sono appunto i modi scelti da Saura , e da Antonio Gades per gonfiare lo spettacolo che lasciano dubbiosi.

Intanto il copione. Seguendo la traccia dell'originale si suppone che in un teatro (all'inizio un pesante sipario ha separato il mondo della finzione da una squallida realtà) il palcoscenico ospiti un villaggio di zingari dove - come i rispettivi genitori avevano deciso da tempo -, Candela e José vanno sposi.

Destinati però a un amore breve e infelice, perché Candela è concupita dal falegname Carmelo, e José se l'intende con la giovane Lucia.

Lampeggiano i pugnali, e José cade ucciso. Ne viene incolpato Carmelo, che quattro anni dopo, uscito di prigione, riprende a far la corte a Candela. Ma la donna dapprima non gli dà ascolto: tenuta per pazza, ogni notte evoca il fantasma del marito, che si materializza e balla con lei. Perché Candela, coi sensi in fiamme, ceda a Carmelo occorre che qualcuno le riveli come José sia stato da vivo l'amante di Lucia. Allora la donna cova la vendetta, e spera che un rito stregonesco bruci anche lo spettro del traditore.

Manco per sogno: ai giorni nostri, quando anche sulle baracche degli zingari si alzano le antenne della Tv, non basta là danza del fuoco a esorcizzare i fantasmi. Bisogna che una vecchia zia spinga Carmelo a eliminare Lucia. E stavolta non occorre ricorrere al pugnale. Resistendo alla seduzione di Lucia, Carmelo accompagna la ragazza sul luogo in cui, fra carcasse di vecchie automobili, José appare a Candela.

Ora infatti la magia funziona: lo spettro porta con sé Lucia nel regno dei morti, e Carmelo e Candela salutano l'alba, felici, con l'ultima piroetta.

Dov'è la crepa del film?

Non certo nei ballerini, che sono i sempre virtuosi Antonio Gades, Cristina Hoyos, Laura Del Sol, Juan Antonio Jimenez, né nell'ambientazione di Gerardo Vera, quando finge quella bidonville popolata di figure pittoresche, coi bambini allevati all'uso del coltello e le ragazze che stendono i panni spettegolando. È proprio nella sua struttura, nel contrasto fra le scene pseudorealistiche, dove le azioni e i dialoghi mimano il vero quotidiano già filtrato dal folclore, e quelle in cui il senso drammatico è stilizzato nei balletti.

Nell'originale la musica di De Falla, composta pensando alla famosa Pastora Imperio, aiutava ad assumere il simbolo nel gesto. Qui, essendo troppo breve, le sono state aggiunte altre musiche popolari che diluiscono la partitura nel colore locale ma lasciano ancora troppo spazio al parlato dei recitativi e paradossalmente interrompono il filo narrativo.

Trasformato in musical alla spagnola, L'amore stregone finisce perciò con l'essere un mezzosangue che galoppa soltanto quando lo frusta il flamenco, con le sue mosse da torero, il suo batter di tacchi, i suoi ardenti sguardi di sfida, certi a solo di chitarra, e le canzoni cantate dall'andalusa Rocio Jurado.

Se dovessimo estrarre il meglio scieglieremmo il flamenco ballato da un gruppo di nonne, il coro malizioso delle lavandaie, la coreografia della danza del fuoco, il finale passo a quattro. C'è quanto basta allo spettacolo, non quanto occorre al totale consenso.






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