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Mezzogiorno di fuoco per Connery su Giove


di Leonardo Autera


Il progresso tecnologico non modifica le nostre strutture sociali; può anzi accentuare i loro contorni più grigi. In questo senso si aggiorna anche la fantascienza cinematografica mostrando un avvenire che assomiglia molto al passato. Lo si era già riscontrato in Alien di Ridley Scott, che al di là dei suoi orrori gotici, trasferiva nello spazio sistemi e problematiche economico-sociali proprie del nostro mondo industriale. Lo stesso avviene anche nell'impostazione di Atmosfera zero (Outland), anche se poi il film scritto e diretto da Peter Hyams si preoccupa piuttosto di prolungare in un contesto avveniristico moduli ben noti del cinema western e poliziesco.

Ma veniamo alle premesse che costituiscono la parte più interessante del racconto. Siamo nel terzo satellite di Giove, il vulcanico Io, dove una grossa impresa industriale terrestre ha impiantato un enorme complesso minerario per l'estrazione degli ossidi di titanio. Tutto vi è funzionale e sotto pressurizzazione, tranne che per i 1250 operai che devono lavorare in tuta nel sottosuolo e che devono passare il resto del tempo accatastati in alloggiamenti metallici che hanno l'emblematica apparenza delle celle di un penitenziario. Né un livido locale adibito a bar e night e qualche prostituta a disposizione possono essere di grande sollievo. Soltanto la prospettiva di un ingente guadagno in danaro e l'uso di droghe può far sopportare ai minatori il disumano trattamento, il quale ubbidisce ad un'unica legge, quella del profitto dell'impresa.

Per elevare al massimo tale profitto si fa anche di peggio. Sheppard, dirigente del complesso, d'accordo con il suo trust ha introdotto nella base due spacciatori di una potentissima anfetamina che, se da una parte fa più che raddoppiare la forza-lavoro degli operai, dall'altra li porta al limite della follia. Quando si verificano alcuni casi di minatori che deliberatamente entrano nell'atmosfera zero senza la tuta speciale finendone disintegrati, entra in azione un nuovo capo della sicurezza, lo sceriffo O'Niel, deciso a far luce sui misteriosi suicidi ed altre esplosioni di pazzia. In breve egli, oltre a smascherare i due trafficanti, scopre anche che a capo della trama è proprio Sheppard. E costui, visto che per liberarsi dell'importuno poliziotto, che ha le stimmate dell'eroe dai solidi principi morali della vecchia frontiera del West, non basta fargli il vuoto attorno, chiama dalla più vicina base spaziale due killer di professione.

Da qui il film diventa una versione pedissequa delle situazioni in cui si trovava il personaggio Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco di Zinnemann; c'è l'uomo ormai solo in attesa, anche qui scandita dall'orologio (digitale), dell'arrivo dello «Shuttle» spaziale (anziché del treno) con i suoi carnefici; c'è anche qui una donna, la dottoressa del complesso che aderisce alle sue ragioni e cerca di aiutarlo; c'è infine il duello mortale.

Alquanto scontato nella seconda parte, Atmosfera zero ha i suoi punti di forza, oltre che nelle allusioni iniziali alle soperchierie di un sistema economico politico, in alcune scene d'azione (non tanto le ultime quanto quelle della caccia e dell'inseguimento dello spacciatore di droga nei labirintici corridoi del complesso) magistralmente montate a pezzi brevi, nell'impianto molto originale e sapiente delle scenografie di Philipp Harrison, nelle funzionali soluzioni luministiche e cromatiche della fotografia di Stephen Goldblatt che accentuano il clima soffocante degli ambienti. Né occorre aggiungere che Sean Connery (il primo e insuperato "007" dello schermo) si investe del ruolo dello «sceriffo» con la sua consueta autorevolezza; ma si raccomandano anche le immediate caratterizzazioni di Peter Boyle (il dirigente della miniera) e di Frances Sternhagen (la dottoressa di mezza età che rimane a dare una mano all’eroe solitario). A conti fatti, più che l'anonimo e discontinuo mestiere del regista se ne apprezzano i collaboratori.






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