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La Kidman ai confini dell'assurdo


Tullio Kezich


Non è sempre vero che i festival aiutano i film. Vedi il caso di Birth – io sono Sean, pellicola raffinata e difficile bastonata dalla critica alla Mostra del cinema di Venezia, da cui è uscita senza nessun premio. Penalizzando in particolare Nicole Kidman, diva dalle scelte intrepide che l'hanno portata da Jane Campion a Kubrick, da Luhrman a Lars von Trier e ad Amenabar, per citare solo alcuni dei suoi appuntamenti artistici più impegnativi. Tra i quali si inserisce di diritto quest'opera seconda (dopo il sorprendente Sexy Beast, 2000) dell'inglese Jonathan Blazer, un regista che ha maturato un perfetto magistero tecnico facendo della pubblicità e del quale capiterà sicuramente di occuparci nell'immediato futuro.

Birth comincia con un uomo in tuta che facendo jogging in un parco innevato improvvisamente si accascia: si tratta di Sean, il marito di Anna (ovvero Nicole Kidman). La vedova inconsolabile piange per un decennio la perdita dell'amato bene prima di accettare la proposta di un corteggiatore attraente, Joseph (Danny Huston), fra l'altro entrato nelle grazie della futura suocera Eleanor (Lauren Bacall). Ma a guastare la festa del fidanzamento, che si svolge in un lussuoso appartamento dell'Upper West Side, piomba chissà da dove un ragazzino di dieci anni (Cameron Bright), vale a dire il neonato che abbiamo visto in un lampo coincidente con la scena dell'infortunio.

Il nuovo venuto si chiama anche lui Sean e si presenta come la reincarnazione di quell'altro, dicendo all'esterrefatta Anna: «Sei mia moglie». Sulle prime la donna si infuria, aggredisce il ragazzino, lo sculaccia; e in seguito lo vedremo attraversare con sconcertante successo interrogatori e prove d'ogni genere.

La sorpresa arriva in capo a un'ora, quando la protagonista (in un sublime momento di recitazione di Nicole) assume la faccia di una che sull'onda di un amore mai estinto può spingersi fino a credere a tanta assurdità. Al ragazzino, che è riuscito a imbastirla, la vedova promette: «Hai dieci anni, tra undici ne avrai ventuno e ci sposeremo».

Scritto dal regista in collaborazione con Jean-Claude Carrière, storico collaboratore di Buñuel, il copione non pretende di far passare per autentico un evento totalmente incredibile, del quale finisce anzi per dare una spiegazione quasi logica.

Ciò che conta, però, è la suggestione delle immagini di una New York cupa e decolorata, opera dello straordinario operatore Harry Savides, e la complessa originalità del groviglio psicologico.






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