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Amare una donna artificiale nella megalopoli del futuro


di Giovanni Grazzini


Uno dei più clamorosi film di fantascienza che si siano visti negli ultimi anni, una, delle più sgomentevoli profezie sull'imminente medioevo, uno dei frutti più maturi del cinema spettacolare. Insomma un film «più», come direbbero i trombettieri patentati, un'ottima sintesi tra fumetto, narrativa popolare e tecnologia audio-visiva su cui c'è da fare pochissime riserve perché i punti deboli (l'epidermica psicologia, i rintocchi filosofeggianti) sono inerenti al genere quale è ormai codificato sul versante moralistico della letteratura avveniristica.

Prendendo spunto dal romanzo "Il cacciatore di androidi" di Philip Dick - ma il titolo originale suonava curiosamente «Gli androidi sognano pecore elettriche?» - gli sceneggiatori Hampton Fancher e David Peoples immaginano che nell'anno 2019 l'umanità abbia portato alle estreme conseguenze le pratiche sperimentate nel nostro secolo: le grandi città hanno formato delle megalopoli in cui i ricchi, nei piani alti dei grattacieli, vivono separati dal fiume fangoso della plebe prodotta dalla sovrappopolazione; i potenti sfrecciano a bordo di aeromobili sulla testa dei miseri che, sotto la pioggia, usano ancora gli ombrelli; gli edifici del Novecento, che costerebbe troppo abbattere, vanno in rovina fra cumuli d’immondizie. Chi se la gode sono i tecnocrati, simbolizzati dal magnate Tyrell, i quali dispongono di creature, i "replicanti", prodotte dall'ingegneria genetica e adibite come schiavi ai servizi spaziali più rischiosi.

Che cosa succede quando alcuni «replicanti», programmati per vivere quattro anni, si ribellano ai loro padroni perchè vogliono vivere più a lungo, e sbarcano clandestini a Los Angeles? Succede che la polizia, paladina dell'Ordine, incarica l'ex detective Deckard di individuarli e toglierli di mezzo. Impresa da superfumetto, perché i "replicanti" sono di carne e ossa, in tutto uguali all'uomo e alla donna seppure privi di memoria e di sentimenti, ma in più forniti d'una forza terrificante. E perché Deckard, mentre indaga sui ribaldi, s'innamora d'una Rachael che è anch'essa certamente una creatura artificiale ma forse costruita con un metodo talmente perfezionato da possedere persino la virtù di provare affetti umani. Come non bastasse interviene il sospetto che qualcuno dei "replicanti" si sia fabbricato dei falsi ricordi, e c'è chi si camuffa da barbona o da donna-serpente per farsi accompagnare dal genetista che potrebbe forse modificare le cellule.

Il più temibile fra i "replicanti", e l'unico superstite dopo che Deckard (con l'aiuto di Rachael) ha eliminato gli altri, è comunque Roy, un biondo Mister Muscolo il quale ha ucciso Tyrell e, ululando come un lupo, finirebbe col far precipitare il suo inseguitore dall'alto d'un grattacielo. Se lo risparmia è perché Roy non ha ottenuto di prolungare la propria vita, e amaramente si chiede a che cosa ormai valga uccidere Deckard. Quest'ultimo dunque l'ha vinta, e l'amore di Rachael lo premia: ma chissà se la donna è stata programmata per sopravvivere quanto basta a invecchiare con lui nel mondo della Luce…

Il fascino di Blade Runner (il titolo definisce la professione di Deckard con un termine preso in prestito da William Burroughs: si potrebbe tradurre «il corriere della lama») sta nell'apparato decorativo in cui si celebrano le sue nozze fra "science-fiction" e film «nero», nel nel rincorrersi di episodi mozzafiato, ambientati fra quinte tecnologicamente sofisticatissime e putrescenti, nell’adombrare una storia d’amore in luoghi agghiaccianti.

Reduce dal successo di Alien il regista inglese Ridley Scott lascia che stavolta l’orrore emerga da un'ipotesi pessimistica sul nostro futuro, e riallacciandosi ai classici del thriller e del western con fantasia tetra e barocca accomuna uomini veri e "replicanti" nella paura della morte.

Per eccellenza film d'avventura, Blade Runner è tuttavia uno spettacolo coi fiocchi, nel quale gli effetti speciali dell'équipe di Douqlas Trumbull, la musica di Vangelis, l'inventiva scenografica di Lawrence G. Pauli, la fotografia di Jordan Cronenweth esaltano fino al delirio la drammaticità di eventi rappresentati da Ridley Scott con uno stile visionario in cui le memorie del cinema degli anni Quaranta si accoppiano ad angosciose premonizioni sul destino che il consumismo prepara all'umanità. La speranza che in un futuro terribile resti spazio alla vita dei sentimenti è uno scotto pagato dal film alla retorica. Conta molto di più l'immagine sordida di questa società degradata, restituita da Scott, nel tragico e nel magico, con una ricerca formale (cui non sono estranei echi dal fumettista Mobius) di grande efficacia emotiva. E molto gli giova l'interpretazione di Harrison Ford, che, prestando la propria faccia ordinaria a un eroe modellato sulle stanchezze e le perplessità di Bogart, versa una goccia di verosimile nel confronto fra Deckart e i punk "replicanti".

Dopo aver fatto le lodi di Sean Young, che conferisce a Rachael la debita carica d'ambiguità, ripetiamo quanto dicemmo dall'ultima mostra di Venezia, dove il film fu presentato fuori concorso. Che quanti diffidano dei colossi hollywoodiani dovrebbero ogni tanto ricredersi. Si danno casi, e questo lo è, in cui il genio di un regista reinventa l'antico racconto poliziesco con una fantasia figurativa che lo fa sembrare tutto nuovo, e ti incolla gli occhi allo schermo.






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