Un inferno chiamato Texas
di Maurizio Porro
Dostoevskij, Texas. Ovvero delitti e castighi lungo le strade sordide e desolate del Texas, un Paese dove - avverte subito la voce fuori campo - ciascuno deve cavarsela da solo. In questa straordinaria opera prima, costata tre anni di lavoro e un milione e mezzo di dollari, il 27enne regista Joel Coen, affiancato dal fratello Ethan, che ha scritto con lui la sceneggiatura, spreme tutti i succhi del cinema nero di un tempo, quello dei “Postino suona sempre due volte” e “La fiamma del peccato”.
Ne esce un film vivo e violento, pieno di vitamine cinematografiche, così allucinato e macabro da incrociare, non a caso, il grottesco.
Ma anche quando emerge il sospetto di qualche sperimentalismo, di qualche vezzo da cinefili, il film è così stretto nella sua invenzione fantastica da permettersi qualunque deviazione. Perché questi fratelli Coen sono tipi che, agguantata l'attenzione dello spettatore, non la mollano: facendo muovere vorticosamente la cinepresa; con personalissime angolazioni, o rallentando i ritmi per valorizzare la suspence, il regista imbuca un film direttamente indirizzato al nostro inconscio.
La partenza è tra le più classiche: lui, lei, l'altro. Lui è Julian, un rude taverniere di origine greca, arricchitosi con un saloon nel Texas; lei è Abby, la bella moglie, frustrata quanto basta per accettare una relazione con Ray, giovane barista alle dipendenze del marito. Fin qui, niente a posto e tutto in ordine: Julian spia l'adulterio e affida a un laido detective il compito, dopo averli scoperti, di uccidere i peccatori. Ma il killer trova più conveniente, dopo aver inscenato un doppio e mai avvenuto omicidio, far fuori il committente. A questo punto la storia s'ingarbuglia: perché Ray, scoprendo il cadavere del padrone e pensando che sia rimasto vittima della moglie, sequestra e seppellisce il corpo (in una sequenza muta di venti minuti di memorabile respiro, anche perchè respira e rantola pure il caro estinto); perché Abby non si rende conto di quanto stia accadendo e sospetta l’amante; perché il killer, tornato alla ribalta, fa fuori Ray e si presenta infine alla resa dei conti con la signora, che non sa più a che santo votarsi e a chi credere. In vita ne rimarrà uno solo: al piacere dello spettatore scoprire chi, e soprattutto come.
Blood simple (come dire sangue facile», ma l'espressione slang è presa da «Piombo e sangue» di Dashiell Hammett) è un film scuro e maledetto che ha il fascino di un incubo. L’unico che sa come stanno le cose è il pubblico, mentre è assai indovinato il ribaltamento delle verità che fa annaspare tutti i personaggi nel buio.
Con una sceneggiata di poche, banali ma essenziali parole, Joel Coen dimostra di essere già un primo della classe nel far muovere questi disgraziati in un inferno chiamato Texas (altro che le assolate praterie dei western!) e nel ridurre tutte le emozioni in termini di puro cinema, ritmo, montaggio, colore, esasperazione visiva, movimenti di macchina raso terra, fascino dell'ambiente e bizzarrie scenografiche.
Il regista regola il traffico dei sensi di colpa e delle passioni con predeterminato ordine, ben sapendo che, come diceva Hitchcock, “è molto difficile e penoso e bisogna avere molto tempo a disposizione per uccidere qualcuno". Trattando paesaggi e materia molto americani con spirito europeo, come se a ogni scena ce ne fosse sottintesa un'altra, Coen è un autore che usa un cinema ripido e scosceso, capace di usare tutti i chiaroscuri del rosso sangue.
Ci volevano, per questa storia di amori e odii sordidi, attori capaci di trarre la violenza da un gesto, da una occhiata, senza fronzoli: e per fortuna ci sono. Frances McDormand è carina, decisa e delicata, la vorremmo proteggere, e John Getz è un bravo ragazzo portato dal caso sulle strade di Macbeth, mentre Dan Hedaya ci spiega con volgare concretezza la sua gelosia e il suo furore, e Monte Emmet Walsh ci comunica una sana e misurata ripugnanza. Nella notte del thriller, Blood simple ha tutti i numeri per diventare un «cult movie», che speriamo sia visto e frequentato fin d'oggi: perché racconta un pezzo di realtà con i tempi e i colori dell'inconscio. Non è poco.
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