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Una fiaba rivoluzionaria


di Tullio Kezich


Vedendo La bussola d'oro ho avuto una sensazione che si prova di rado, quella di assistere a un rito di passaggio. Non intendo con ciò enfatizzare l'importanza di un film che va apprezzato nei limiti di un'impeccabile macchina da spettacolo; e del resto la novità che vi ho percepito vanta numerosi precedenti e si affermerà pienamente solo in futuro.

Tuttavia la mia impressione è che stiamo passando dalla preistoria alla storia del film-favola Non parlo ovviamente dell'animazione, dove la favolistica regna sovrana dai tempi di Méliès; parlo dei film con attori in carne e ossa. Nel tentativo di ricostruire cronologia e vicende di questo sottogenere, ho rilevato che i testi canonici se ne occupano poco. Nell'Enciclopedia dello Spettacolo la voce “favola” non c'è; e non c'è nemmeno nelle più recente Enciclopedia del cinema della Treccani, dove il buco risulta riempito da 8 pagine di illustrazioni che vanno dal Sogno di una notte di mezza estate (1935) di Reinhardt-Dieterle a Harry Potter e la pietra filosofale (2001), senza trascurare La bella e la bestia (1946) di Cocteau, la trilogia di Guerre Stellari e Pinocchio (2002) di Benigni. Tali esempi non aspirano a completezza perché i tentativi di sconfinamento dal realismo sono stati più numerosi, magari vagheggiando progetti irrealizzati come quello delle Fiabe italiane di Calvino annunciato da Fellini. Sul tramonto del neorealismo proprio l'autore di La strada fu accusato di deviazionismo fiabesco; e prima ancora avevano suscitato deplorazioni a sinistra i barboni-clowns di De Sica in Miracolo a Milano. La vera preoccupazione dei registi non era comunque l'idiosincrasia della critica, ma il legittimo dubbio che il cinema ancorato alla realtà fotografica potesse acquistare la leggerezza per tenere il passo con la fantasia.

Ed ecco che cavalcando gli effetti, dopo molti tentativi solo in parte riusciti, La bussola d'oro è finalmente una vera favola cinematografica.

Il film deriva dal primo volume della trilogia Queste oscure materie, di cui gli altri due sono La lama sottile e Il cannocchiale d'ambra, tutti stampati da Salani. Li ha scritti, a partire dal 1995, il pluripremiato Philip Pullman. La vicenda rispecchiata nel film, con condensazioni e omissis deplorati dai «fans» del ciclo narrativo, introduce l'undicenne Lyra (sorprendente incarnazione dell'inedita Dakota Blue Richards), orfanella allevata in un college di Oxford e decisa a scoprire la vera natura della polvere dorata che cade sugli uomini delle nevi eterne.

I bigotti dell'onnipotente consesso chiamato Magisterium predicano che la polvere è il Male e intendono contrastarne l'influsso facendo rapire i bambini trasferendoli in una clinica-prigione al Polo Nord dove vengono separati dai «daimon», animali dall'aspetto mutante che incarnano l'anima di ciascuno.

Nella lotta di liberazione contro questa nuova strage degli innocenti, Lyra è soccorsa da una banda di gitani, da una specie di Buffalo Bill in pallone aerostatico, da un gigantesco orso e da una strega seducente. Tra un'avventura e l'altra, la protagonista avendo ritrovato madre e padre è sempre più decisa a non mollare. Il finale sembra prevedere altri due film, per realizzare i quali la produzione aspetta i risultati del primo. Affidata a Chris Weitz la confezione è della migliore qualità britannica e gli interpreti, inclusi quelli che nell'originale si limitano a dar voce agli animali, sono tutte stars, con una Nicole Kidman bella e cattiva e un Daniel Craig carismatico e buono. Ma la novità mi pare che consista proprio nel fatto che gli effetti speciali sono ormai effetti normali; e costituiscono quella chiave in più che il cinema si è faticosamente fabbricato per farci entrare nel regno delle favole.






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