La fiaba di Howl, specchio della vita
di Tullio Kezich
Nello sciocchezzaio della critica anni '50 merita ricordare ciò che qualcuno scrisse sul finale di Miracolo a Milano, quando i barboni inforcando le scope strappate agli spazzini decollano da Piazza del Duomo verso «un paese dove buongiorno vuoi dire veramente buon giorno». Secondo quel critico, di cui fingo di aver dimenticato il nome, in tal modo i sottoproletari in fuga si erano resi colpevoli di aver sottratto a degli operai il loro strumento di lavoro. Apparentemente insignificante, questa stupidaggine va ricordata in prospettiva come un sintomo dell'ottusa preclusione alla favola tipica di una parte della cultura di sinistra. È vero che nel '49 Einaudi aveva inserito nella collana viola, patrocinata da Cesare Pavese, «Le radici storiche dei racconti di fate» del sovietico Vladimir Propp, ma in mezzo ai contrasti evocati da Luisa Mangoni nell'ottimo studio «Pensare i libri»: e così la legittimazione marxista della favola era rimasta a metà.
Tant'è vero che ne fece le spese, oltre al film di De Sica, anche un altro capolavoro, La strada, di Fellini, accolto nel '54 come un tradimento del neorealismo.
Oggi l'assegnazione del Leone d'oro al maestro giapponese dell'animazione Hayao Miyazaki, di cui esce in contemporanea sugli schermi italiani Il castello errante di Howl premiato l'anno scorso, rappresenta l'inevitabile trionfo della controtendenza.
Senza contare che l'attuale Mostra veneziana si è concessa altre scorribande nel mondo della fantasia, non solo con il travolgente I fratelli Grimm e l'incantevole strega ma anche con L'educazione fisica delle fanciulle di John Irwin (su sceneggiatura di Lattuada, da Wedekind) e Specchio magico del grande Oliveira. Per non parlare dei trionfi planetari di libri e film come i cicli di Harry Potter e Il signore degli anelli. Insomma, abbiamo finalmente capito che la favola non è puro «escapismo» (chi ricorda questo termine desueto, usato all'epoca in forma di anatema?), ma un altro modo per rispecchiare la vita.
Tipico in questo senso è proprio Il castello errante di Howl della scrittrice britannica Diana Wynne Jones (classe 1934), pubblicato da Kappa edizioni. Ambientata «nella terra di Ingary, dove realmente esistono cose come stivali delle sette leghe e mantelli che rendono invisibili», la vicenda racconta di una giovane modista che per la vendetta di una strega diventa una vecchietta novantenne.
Però Sophie non si arrende e trova il modo di mettersi al servizio del giovane e affascinante Mago Howl, che vive in un castello sempre in movimento, con la porta che volta a volta si apre su differenti realtà. Questa parabola sulla terza età e sull'arte di affrontarla senza troppe ansie si estende su 250 pagine in forma quasi sempre letificante, anche se appesantito da divagazioni che il film riesce solo in parte a sbrogliare.
Il problema è se il premiato Miyazaki, 64enne con alle spalle una lunga carriera, è da considerare un grande illustratore o un autore in proprio. Personalmente di lui ho preferito La principessa Mononoke, Orso d'oro a Berlino, perché legato alle tradizioni e alla cultura del suo paese, Howl rappresenta un passo fuori dall'ambito nipponico, forse un adeguamento alle esigenze del mercato nel momento in cui molti territori si sono aperti a un disegno giapponese che fa dimenticare le trasandatezze dei mostri e dei robot. Maturato in polemica con la svendita televisiva dell'animazione, il segno di Miyazaki è pulito e spiritoso. L'inevitabile riferimento allo stile Disney è riscattato dalla forza di una visione fantastica personalissima che si realizza nel modo più felice soprattutto nei personaggini di Calcifer demone del fuoco e di Rapa spaventapasseri quasi umano.
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