Un mostro terrorizza New York (ma non turba gli spettatori)
di Paolo Mereghetti
Godzilla è tornato. Ma siccome non siamo più nel 1954 ma nel secondo millennio, qualche aggiornamento si impone: il mostro che terrorizza New York City è meno squamoso di quello giapponese e soprattutto è più alto (350 metri contro i 50 di Godzilla); si accompagna, o genera, una miriade di piccoli mostricini famelici e aggressivi (molto debitori all'Alien di H.R Giger) e visto che Hollywood non ha ancora intenzione di chiudere i conti con l'11 settembre la sua apparizione non ha nessuna spiegazione. È terrore puro. O almeno dovrebbe esserlo.
Quello che cambia è invece il punto di vista. Non l'occhio «oggettivo» dei 35 millimetri cinematografici ma quello «soggettivo» (e molto giovanilista) delle cineprese video, che possono usare anche i più imbranati video amatori. Come appunto è Hud (T. J. Miller), invitato alla festa organizzata da Rob (Michael Stahl-David) per salutare gli amici prima della sua partenza per il Giappone e che si vede mettere in mano una videocamera per registrare i messaggi dei vari invitati al padrone di casa.
Non la mollerà più, anche quando qualsiasi persona di buon senso l'avrebbe gettata per terra per fuggire con meno impicci. Lui no, la terrà inchiodata all'occhio filmando tutto quello che accade permettendo così al pubblico di seguire quello che è avvenuto in quella tragica notte del 22 maggio 2007 (le sovrimpressioni automatiche dei video hanno la loro utilità) da una postazione ultraprivilegiata. Quella di chi sta in primissima fila. Raccontando le peripezie di quattro amici - Hud, Rob, Lily (Jessica Lucas) e Marlena (Lizzi Caplan) - che prima cercano di fuggire e poi decidono di salvare Beth (Odette Yustman) rimasta incastrata tra le macerie del proprio appartamento.
Regista (Matt Reeves), produttore (J.J. Abrams, il creatore di Alias e Lost, poi regista del deludente Mission: Impossible 3) e major (Paramaount) hanno invaso il mercato di materiale auto promozionale dove si sprecavano le citazioni di You Tube, si scomodava "la diffusa mentalità voyeuristica" e la voglia di "intrusione nelle vite degli altrui". Per teorizzare - una specie di equazione artistico-produttiva: se s'inizia il film sbirciando (una videocamera non può fare altro) dentro una situazione reale come è quella di una festa tra amici, quando si scatena il caos «automaticamente si trasferisce quella sensazione di reale anche al mostro stesso».
Peccato che invece succeda il contrario: non credi alla realtà della festa e di conseguenza non credi nemmeno al mostro che distrugge Manhattan. Dove naturalmente «credi» vuol dire molto più cinematograficamente, non riesci ad immedesimarti, non ti fai coinvolgere. Il punto cruciale del film è proprio qui: credere che il meccanismo voyeuristico che ha fatto la fortuna sui video dei computer di casa di You Tube possa essere meccanicamente riprodotto al cinema, dove invece l'identificazione tra spettatore e schermo scatta solo se esistono alcune condizioni precise. Una delle quali è la leggibilità dei messaggi, la condivisibilità del quadro di riferimento.
In Cloverfield tutto questo non avviene: la frammentarietà delle riprese e del racconto agisce come una specie di incontrollabile "reset" che rompe la tensione e disturba la visione, azzerando ogni volta il legame primario tra spettatore, schermo e sala buia su cui è costruito il meccanismo di fascinazione e di identificazione del cinema.
E infatti il successo del primo weekend americano (più di 46 milioni di dollari d'incasso) è stato fortissimamente ridimensionato in quello successivo.
Dove si capisce che gli sforzi del marketing funzionano quando nessuno ha ancora visto il film, ma poi devono necessariamente fare i conti con il valore (o il non-valore) del film.
Altro discorso sarà il consumo televisivo o via dvd di un film tutto costruito sul tema dell'afasia e dell' «impossibilità» di vedere a cui condanna l'occhio della videocamera amatoriale (con la significativa eccezione di due vistosi marchi pubblicitari). Probabilmente allo spettatore televisivo, distratto e superficiale, quel guazzabuglio di immagini poco significanti finirà per sembrare il prolungamento di qualche reality post-post-moderno e l'audience si impennerà (anche se ho molti dubbi). Certo è che al cinema la superficialità della sceneggiatura e la sfarinatura della tensione finiscono per rendere un pessimo servizio all'idea che i nuovi percorsi della paura debbano passare da qui.
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