C'è qualcosa di confusamente ambiguo nel nuovo film di Zemeckis, storia di una scienziata che "risponde" ai segnali galattici in arrivo da Vega e decide di partire nello spazio alla ricerca del contatto con gli extraterrestri: è l'ambivalenza con cui il film racconta la presenza dell'irrazionalismo religioso nella cultura americana, di cui mescola le più profonde istanze morali con le più superficiali degenerazioni new age. Temi eterni che una sceneggiatura troppo scolastica riduce a domande per le stagnole dei cioccolatini, quando non colora con una paranoia troppo alla moda (la stessa che ha innescato il successo di X-Files). Ma che poi un'interpretazione davvero straordinaria da parte di Jodie Foster riesce a vivificare e a rendere credibili. Perché il problema di Contact è proprio questa dicotomia tra uno spettacolo infantile e un po' pacchiano e un'attrice assolutamente magnetica.

Più che da Vega, la vera forza del film scaturisce dagli occhi intensi della Foster, dal suo profilo cristallino, dalla capacità di trasmetterei quelle piccole scintille di verità che ci fanno identificare con un personaggio. Nella testardaggine, nella rabbia, nella fragilità della scienziata Ellie Harroway, c'è l'energia e la vitalità delle donne vere. E non è un caso che uno dei momenti più belli del film sia la scena in cui la folla vuole vedere in lei una specie di profeta messianico: basta un suo sguardo per capire quello che altrove il film spiega con troppa pedanteria, e cioè che la solitudine è il dramma di chi non vuole rinunciare alla propria razionalità.

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