È una Cosa dell'altro mondo, ma assomiglia a te
di Mariuccia Ciotta
"Qui è tutto normale" dice il medico della spedizione mentre fa l'autopsia a un groviglio di membrane sanguinolente e accartocciate, la faccia dell'essere è la fusione raccapricciante di due teste umane che allargano il loro sorriso in una profusione disordinata di denti.
Il film di Carpenter si allunga sul ghiacciai dell' Antartico. Un secco martellare di scene bianche, un radioso e "normale" inverno a 40 gradi sotto zero. Un film essenziale e scarno, dialoghi secchi, geometriche inquadrature, ombre e immagini ritagliate sulla neve. Nell'asettica, pura e incontaminata distesa, l'infezione della "cosa" attacca. Qualcosa che vince la prevedibile scansione del tempo. Gli uomini passano il tempo a giocare a biliardo, vedono e rivedono vecchie cassette tv e ascoltano rock. È l'ambiente da college caro a Carpenter, quello del suo primo film Dark Star. Solo il brusco MacReady se ne sta da solo a giocare a scacchi con un computer e perde, scola whisky e aspetta.
L'"altro" in The thing è il massimo della normalità: se stessi. La cosa dell'altro mondo che Howard Hawks inventò nel 1952 e di cui questo è il remake (tratto dal romanzo di John Campbell Jr., alias Don A. Stuart, Who Goes There?) era una creatura venuta dallo spazio e si riproduceva come un vegetale. Finiva bruciata da scariche di corrente elettrica. Anche la "cosa" di Carpenter si riproduce ma lo fa penetrando in altri esseri. Si trasforma e trasforma. Le immagini della mutazione incompleta, quella, che fa cogliere l'attimo della sostanza innaturale dei corpi, è il luogo dell'horror. Un uomo sembra normale, assomiglia al tuo miglior amico e all'improvviso il suo volto si squarcia e appare la natura orribile dell'"altro". "Cosa faresti se un tuo amico ti dicesse al bar ho un problema e poi ti si avventasse al collo ululando?", chiedeva John Landis per spiegare il suo Un lupo mannaro a Londra. È lo stesso tipo di paura. La mutazione è involontaria, ma quando è avvenuta, seduce l’uomo a principi alieni, catastrofici.
Mac Ready è Kurt Russell, stessa barba e stessi occhi chiari dello Jena Pliskin di Fuga da New York (impressionante somiglianza con John Carpenter). L'eroe - erotico ha paura del suo doppio, ciò che teme di più questa volta è la sua trasformazione in qualcosa superiore a ogni fantasia da incubo. Il trucco e gli effetti speciali delle trasformazioni sono di Bob Bottin, ideatore di quelli magnifici dell'Ululato (corpi che sussultano sotto la pressione elettronica e mutano in "diretta"). Purtroppo per pasticci sindacali non potrà concorrere agli Oscar. Roy Arbogast e Albert Whitlock invece hanno curato gli effetti meccanici e quelli visivi. I tre insieme hanno materializzato i disegni di Carpenter.
Il risultato è un gioco di filamenti e materia gelatinosa, zampe da ragno e fauci grondanti bava. Ma la cosa per brutta che sia non raggiunge il massimo dell'orrore in sé, la paralisi giunge davanti alle normalità di un'espressione umana. Dietro i suoi occhi, una bocca aperta, una mano, chi guarda immagina già e sospetta ciò che ancora non vede. L'orrore indicibile di un amico che non è più amico, di un uomo che non è più uomo.
Nell'equipe di ricerca scientifica ognuno teme l'altro. Ci sono due negri nella base, già abbastanza "diversi" da poter essere loro gli infetti. Oppure diverso sarà il fricchettone che crede ancora alla controcultura, walkman alle orecchie, spinello sempre in bocca? (l'attore è David Clennon, redattore di una radio "alternativa" di Hollywood, la Kpfk). O il medico-scienziato un po' folle? O il ragazzetto un po' gay? O proprio lui, l'eroe dal cervello e dai muscoli scattanti? Tutti possono essere la "cosa". Mac Ready inventa un buon metodo per scoprirlo. Uu filo di ferro incandescente immerso nel sangue di ognuno degli uomini.
Quello alieno si ritirerà urlando perché ogni sua cellula vive di vita propria.
L’essere che è venuto dal cielo mille anni fa con un disco volante precipitato nella neve, è stato dissotterrato da una equipe norvegese. Moriranno tutti, ma la "cosa" si rifugia nel corpo di un cane lupo e raggiunge la base americana. Se uno solo degli uomini contaminati raggiungerà altri uomini il mondo sarà presto alieno.
Con il rimbombo della musica di Morricone, il film procede senza sbalzi di suspence. Tutto appare verosimile, anche la testa che con spasimi terrificanti si stacca da un corpo cade e si ramifica in mille zampe e tentacoli o l'assorbimento di corpi che danno al mostro l'aspetto sempre più umano. Un umano che strappa alla "cosa" il primato della paura.
John Carpenter non aveva mai girato un film horror con la presenza "visibile" del mostro. Distretto 13, Fog, Halloween, Fuga da New York giocavano col buio e la nebbia, con i fantasmi. Un po' fratello di Alien di Ridley Scott, il mostro è la cosa più lontana all'Extra Terrestre di Spielberg. Lì il testone con gli occhi sgranati è un diverso amabile, il meraviglioso spaziale che tutti vorremmo incontrare. Carpenter invece teme l'alterazione dell'umano, l'invasione degli ultra - corpi (Don Siegel) ed esaspera il terrore del mutamento. La perdita delle differenze tra l'uomo e la macchina o forse meglio tra l'uomo e la donna. Il "parto" è un grumo repellente di due individui stretti e fusi, senza forma. E senza sesso perché capaci di riprodursi da sé, all’infinito.
Ma alla fine, anche l'eroe cederà di fronte all'impossibile soluzione. Solo sul ghiacci insieme all'ultimo sopravvissuto, MacReady accetterà il "diverso". Il suo unico amico rimasto è un negro.
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