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Narnia, la favola nasconde la realtà


di Tullio Kezich


Che sia compito delle favole mostrare il vero volto della realtà? Dopo mezzo secolo di osservanza neorealista, sia pur temperata da rinfrescanti deviazionismi felliniani, il sospetto mi assale di fronte all’icipit del film «Il leone, la strega e l'armadio» tratto dalle «Cronache di Narnia» (Mondadori) di Clive Staples Lewis (1898-1963). È di scena l'allucinante evocazione di un episodio del «London Blitz», un tremendo attacco aereo che costringe quattro fratellini a mettersi in salvo fuggendo dalla casa sinistrata. Qualcosa di analogo mi cadde addosso fra le bombe e i crolli del lontano '44, logico quindi provare un emozionato senso di déja vu in cui confondere vita e cinema, meno logico che il tutto (incluso lo sfollamento dei protagonisti, quando alla stazione si separano dalla mamma per approdare poi a una landa inospitale) introduca una sarabanda di streghe, mitologismi e animali parlanti.

Perché mai Andrew Adamson, l'animatore di Shrek qui per la prima volta alle prese con personaggi umani, ha indugiato su un prologo che nel libro è liquidato in poche righe? Il motivo è semplice: il cineasta ha voluto dare il massimo della concretezza alla brutalità del vero che induce a cercare la fiaba in quanto uscita di sicurezza. Sette, come lo sarà al compimento il ciclo di Harry Potter, sono i romanzi di Narnia usciti a partire dal 1950, quando le ferite della seconda guerra dolevano ancora. Viene naturale pensare che il professor Lewis, docente di lingue antiche a Oxford avesse preso come il collega J.R. Tolkien l'abitudine di trovare riparo alle imboscate della storia nell'isolamento del proprio studio. E per analogia si evoca un libretto del tardo '700, «Viaggio intorno alla mia camera», dove l'ufficiale Xavier de Maistre confessò di avere messo a frutto gli arresti domiciliari per inventarsi fra quattro mura gli infiniti richiami della fantasia. Insomma frugando nei familiari anfratti degli armadi c'è davvero il rischio (o la speranza?) di vedersi schiudere davanti, come succede alla piccola Lucy (deliziosa, sullo schermo, Georgie Henley), una dantesca natural burella verso il regno delle favole.

Ma cosa scoprono Lucy e dietro a lei i suoi fratelli (Susan, l'ambiguo Edmund e l'eroico Peter) sperduti nel vasto paesaggio di neve, alberi e praterie assolate che una produzione miliardaria si è ritagliato fra Boemia e Nuova Zelanda? Anche nei sogni ci affliggono le angosce quotidiane, il bilancio dei conflitti e delle perdite; e così Narnia (Lewis prese l'antico nome latino della città umbra di Narni) si rivela oppressa dalle trame nere della Strega Bianca (una temibile Tilda Swinton alta sui coturni) contrastate e infine travolte dalla resistenza guidata dal re leone Aslan, alfiere cristologico sbocciato dagli ardori dell'autore neoconvertito.

Nel film Aslan è un misto di leone vero, mastodontici pupazzi e computer, con sovrapposto l'autorevole timbro (nella versione nostrana) della voce di Ornar Sharif. Roz Kaveney, nella recensione sul TLS nota comunque che il regista evita di fornire una versione bipedale di Aslan presentandolo eretto come nei disegni originari di Pauline Baines.

La familiarità di Adamson con i cartoons fa sì che i personaggi di matita (primi fra tutti i simpatici coniugi castori) si integrano e chiacchierano con gli umani su un piano di parità, vedi lo spiritoso e conclusivo cammeo di Jim Broadbent che sembra veramente disegnato. E a conferma che l'immaginazione al potere non conosce limiti è appassionante vedere l'umile cronaca di questi ragazzi alla ventura dilatarsi nell'affresco epico di una battaglia campale degna di Ejzenztejn o dell'Enrico V di Olivier. Dubbio finale: un film siffatto è destinato a stimolare la fantasia dei bimbi oppure, sul terreno di un'impari competizione, contribuirà ad atrofizzarla?






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