Sotto l'ala di Stephen King aspettando l'arrivo del Male
di Maurizio Porro
Come «Messaggero d'amore», Cuori in Atlantide di Scott Hicks, il regista di «Shine», è un film sul potere taumaturgico della memoria e sull'analisi dei ricordi. E poiché ci si ispira a un racconto del thriller man Stephen King in cui il bravo Anthony Hopkins è un misterioso veggente che, nella provincia del Connecticut anni '50, fa amicizia con un ragazzino carente di affetto e orfano di padre, si può dire che sia un mix tra «Stand by my» e «Il sesto senso». Pur lasciando, come dice qualcuno, molti quesiti aperti e domande irrisolte sul fronte del razionale, il film è una elegia sul Tempo, con tutte le sue emozioni, e sulla disperata, faustiana e ben nota impossibilità di fermarlo. Poi, in fondo al viale, si cresce: non a caso alla fine l'uomo che rivive la sua adolescenza confessa che fu quella la sua ultima estate innocente.
Tradizionale nel ripercorrere il fascino e le perfidie dell'età della gioia, pur con tutti i suoi misteri tenuti a bada, Cuori in Atlantide parla di poteri paranormali, cita il capo dell'Fbi Hoover e l'elisabettiano Ben Johnson, se la prende con le mammine troppo bionde e, a biechi fini di nostalgia, ci fa risentire i Platters, Sinatra e «Scandalo al sole». Ma, tutto sospeso tra realtà e fantastico, è riuscita la vena intima con cui racconta la complicità non verbale tra il vecchio - che lassù qualcuno odia di cuore dato che alla fine viene rapito dalle forse del Male - e il giovane. E poi, gli eroismi dell'infanzia, le suggestioni del dubbio che permettono ogni illazione sulla vera natura di Hopkins, comunque un ottimo precettore di letture, il fascino introverso di un difficile rapporto di famiglia sullo sfondo tipico della piccola città americana. Il senso è che le cose cambiano, sempre e comunque, anche contro la nostra volontà.
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