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Struggente viaggio di Pitt nel tempo
di Maurizio Porro
Curiosissimo davvero. Benjamin nasce nel 1918, fine della guerra, a New Orleans ed è già vecchio, rugoso, grinzoso, non è un neonato normale. Abbandonato dal potente padre e dalla madre che muore di parto, è allevato da una donna di colore. La disfunzione temporale creata da Scott Fitzgerald in un racconto ora adattato a "graphic novel" da Guanda e frequentata da altri (Gombrowicz, Vitrac) è che mentre il tempo passa si ringiovanisce: Ben morirà neonato nel 2005.
È un guaio per tutti: tanto che la sua fiamma (la luminosa ballerina Cate Blanchett) racconta tutto morente dal letto d'ospedale la notte in cui l'uragano Katrina fece scempio, ma s'incrocia con l'età di Brad Pitt solo per un momento: l'amore fugge per tutti. È questo il lato bello, poetico e struggente di un viaggio nel tempo ispirato da una frase di Mark Twain ("La vita sarebbe felice se potessimo nascere a 80 anni e gradualmente giungere ai 18"), sceneggiato con abilità dall'Eric Roth di Forrest Gump: c'è un colibrì al posto della piuma, ma è sempre la sintesi di un'emozione, un ricordo (la gag dei fulmini). David Fincher si è sempre buttato senza rete nell'inconscio, nella follia (da Seven a Zodiac) e qui prende l'occasione giusta per fare un salto in alto nel tempo e nello spazio, con avvio clamoroso anche se i trucchi di Rick Baker sono prodigiosi, ma non si ha mai l'idea di un bimbo.
Poi il film si allunga e si gode come chewing gum, talvolta torna il sapore forte dell'idea originale, la lotta proustiana contro il Tempo che Resnais girò in Providence, altrove il filo si allenta, prendendo scorciatoie sentimentali. E affiorano temi fitzgeraldiani, notti tenere di jazz e caviale (è magica la parte con Tilda Swinton), ma il continuo trasloco d'epoche e look appesantisce un film di 166 minuti che non trova sempre l'equivalente visivo al «vorrei» dell'autore. Comunque piacerà tantissimo.
Anche perché, volere o no, il contrasto con il tempo ci appartiene e piacerebbe provare questo sgambetto.
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