Un bizzarro Premio Nobel
di Giovanni Grazzini
Come fa presto l'America, col suo ottimismo a ogni costo, a guarire dallo scetticismo anche gli europei che portano sulle spalle secoli di delusioni e hanno provato amarissime scottature. Emigrato negli Stati Uniti nel '68 con Milos Forman, quando i carri armati sovietici gli piombarono in casa, il ceco Ivan Passer, ora si diverte a prendere in giro gli scienziati USA, o mattoidi o invidiosi l'uno dell'altro per l'appunto come negli istituti di ricerca del vecchio continente, ma non sa resistere alla tentazione del lieto fine.
Per un certo tempo i film americani di Passer conservarono l'eco di quell'ironia mesta che caratterizzò il suo· esordio in patria. Ora non è che l'abbiano del tutto smarrita, ma è passata in seconda linea: alla ribalta c'è l'elogio dell'amore coniugale, l'applauso alla vita, la fede in Dio.
Ciò vuoi dire che il cinema di Passer non merita più d'essere seguito? Niente affatto. Vuoi dire che occorre qualche sforzo per distinguerlo dai buon professionisti della commedia hollywoodiana.
Prendendo lo spunto dalla sceneggiatura che l’americano Jeremy Leven ha tratto dal proprio romanzo "Creator", Passer comincia col presentarci uno di quei premi Nobel in cui il genio a detta di qualche collega sconfina nella demenza: il biologo californiano Harry Wolper che per avere perduto l'amatissima moglie Lucy trent'anni fa vuole ricrearla in laboratorio, valendosi delle cellule che ha gelosamente conservato.
Perché l'impresa riesca occorre che un giovane assistente dia una mano al dottore mentre conduce l'esperimento in un casotto dietro casa, e che una ragazza fornisca un ovulo di giornata. Se è soltanto per questo, non vi sono difficoltà: Harry soffia al collega Sid il volenteroso giovanotto Boris, e ottiene quanto voleva da Meli, spregiudicata fanciulla.
Le cose andrebbero bene (sposato alle cellule di Lucy, il seme di Meli comincia a dar frutto) se non accadesse che Sid, per vendicarsi, fa requisire le attrezzature segrete di Harry e la ragazza di cui Boris sì è innamorato, la bionda Barbara, rischia d'andare all'altro mondo, mentre Meli fa diavolo a quattro per convincere il dottore a sposarla.
La commedia sembra volgere al tragico quando Sid, ritenendo Barbara incurabile, progetta di staccarle l’ossigeno, e Boris lo supplica in ginocchio di aspettare, ma i toni lieti tornano a prevalere nel finale. Perché Harry, conquistato dall'amore di Meli, rinuncia a far rivivere la moglie, e Boris seguendo i consigli del maestro, riesce a mettere in salvo la propria ragazza.
Il cuore del film batte nel ritrattino del dottor Wolper, tipo davvero strambo per il suo anticonformismo accademico, per i rapporti confidenziali che crea coll'assistente (ha da essere «serio ma spiritoso»), per la "visione globale" dell'universo di cui è sostenitore anche per la tenerezza con cui rimpiange la moglie.
Tutte le simpatie del regista Passer vanno a lui, e quando Wolper viene premiato con un finanziamento che costringe tutta l'équipe, compreso Sid, a seguirlo in un'altra città, il film inneggia alla virtù americana di individuare i talenti superiori nei quali scienza e umanità vanno a braccetto.
Il guaio (piccolo guaio) è che il film procede a zig-zag, passando dal comico al patetico e al drammatico senza una sostanziale unità di timbro e tentando di togliere a Wolper quel carattere di macchietta a cui la recitazione di Peter O'TooIe, colorita e divertente, lo condanna.
Non è improbabile che, Passer, introducendo qua e là tramonti infuocati e spingendosi ora verso la satira ora verso l'idillio campestre, voglia mettere in burla il genere, ma è dubbio che lo spettatore non ne esca, soprattutto, dolcificato.
Tutto il resto funziona: il robot che Boris si è costruito per farsi buttare giù dal letto, il sigaro enorme fumato da Harry, un bacio sotto la doccia, il gesto fatale con cui Harrv restituisce al mare le cellule di Lucy, il festoso epilogo in bicicletta. Accanto a Peter O'Toole, commediante di classe, recitano con garbo Vincent Spano nei panni di Boris, e Mariel Hemingway e Virginia Madsen. La prima tutta stuzzicante nella parte provocatoria di Meli che le sta a pennello, la seconda dolce e graziosa come una madonnina in quella di Barbara.
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