Torna Dracula felice e contento (però il pubblico un pò meno)
di Maurizio Porro
Se avete il coraggio di restare a vedere anche il secondo tempo (50'), dopo un primo (35') eccezionalmente piatto e noioso, Dracula morto e contento ("Dracula: dead and loving it"), il film con cui Mel Brooks torna alla parodia dell'horror 22 anni dopo «Frankenstein jr.», migliora un poco. Entrando in scena lo stesso Brooks come scienziato anti vampiri, qualcosa nella sceneggiatura (a 6 mani) si muove, alcuni riferimenti al passato gotico del cinema, Tod Browning in testa, sono spiritosi (le ombre "espressioniste" autonome), un battibecco in antico moldavo diventa un tormentone e la battuta se "nosferattu" fosse per caso sardo provoca la prima franca risata.
Ma non è molto.
Brooks dilapida così il proprio patrimonio di humour con una certa volgare faciloneria e questo Dracula, che viene dopo altri 160 titoli sul nobile vampiro, resta un film solo enunciato in cui spesso la bella fotografia, la cura scenografica e il rispetto dei fatti così come leggenda comanda, partendo da quel fatidico 1893 in Transilvania, inducono il pubblico a interrogarsi se si fa sul serio o meno.
Leslie Nielsen, quello delle pallottole spuntate, arriva con un parruccone bianco cotonato, assoggetta un servo e inizia la strage di cuori, partendo dalla solita fanciullina vittoriana timorata, finché il professore col fidanzato ridurranno Dracula in polvere, il tutto con paletti e aglio secondo iconografia Hammer Film (e la minaccia di un clistere, stile Brooks Film).
Continuando a smitizzare i generi, Brooks rischia di ripetersi e qui raschia davvero il barile senza trovarci quasi nulla, a patto non si debbano chiamare trovate l'apparizione di Greggio vetturino e quella di Anne Bancroft in Brooks, che dispiace molto esca di scena. Ma il mangia insetti Peter MacNicol lavora molto sul ritmo comico, le fanciulle mostrano pallori e colli violacei, mentre Brooks fa il medico che lascia ad altri le docce di sangue. Nielsen, che si picchia la testa quando esce dalla bara, segue lo stesso irrispettoso film da anni, strizzando l'occhio in sala, ballando il tango, telecomandando le sue donne in stato di ipnosi, con risultati ilari. Battute e battutacce, fanciulle in fiore morse dormienti, mantelli, cavalli e carrozze, un ballo e una lezione di chirurgia sui generis, gag replicate, urla concomitanti e le smorfie, per la verità stavolta misurate, di Brooks che si prende sul serio per comunicare, regola del contrasto, il virus dell'humour, che una volta il regista elargiva a man bassa, e che ora misura col contagocce: please, ridateci il primo Mel, quello di «Springtime for Hitler».
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