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L'incubo delle "dodici scimmie"


di Maurizio Porro


Terry Gilliam, l'unico americano fra gli inglesi dei Monty Python, regista di film folli e personali come “Brazil” e «La leggenda del re pescatore» ha perso, avvicinandosi al gong del millennio, la voglia di ridere. Ne fa fede «L'esercito delle 12 scimmie», offerto in anteprima ai lettori di «Vivi Milano», allucinata premonizione sul Medioevo prossimo venturo. Precisamente del 2035 quando, secondo la sceneggiatura di David e Janet Peoples, con alle spalle "Blade runner" e «Gli spietati», le bestie cammineranno in disturbate per New York e gli uomini, decimati al 99% da un terribile virus, saranno costretti nel sottosuolo.

Ispirato a un «corto» fulminante di Chris Marker, «La jétée», in cui un uomo viene rispedito nel passato per osservare il proprio destino, il "lungo" di Giliam prosegue con l'accredito visionario delle grandi occasioni «off Hollywood»: spedito indietro nel tempo, Bruce Willis capita per errore sul fronte della Prima guerra mondiale e si prende una pallottola nella coscia, poi torna al 1990, viene preso per matto; rinchiuso in manicomio, protetto a vista da una psichiatra (Madeleine Stowe) che d'ora in poi sarà la sua ombra. Visionario fino all'anarchia del racconto, Gilliam sfodera un «unhappy end» senza appello, pur aprendo e chiudendo la storia sul volto bello di un bambino. Il resto è impossibile da raccontare, compresa la sorpresa finale, quando un incubo ricorrente finalmente s'avvera.

Il film ci ricorda che siamo alla vigilia di un cambiamento epocale: saranno gli animali a prendere il potere. Di questa teoria il più convinto assertore è il non protagonista Brad Pitt, rampollo ecologista hard di un famoso virologo, che nella storia si agita troppo per fare il pazzo. Nella gran coppia virile, in par condicio esibizionistico (entrambi mostrano orgogliosi il loro muscoloso sedere), Willis, a cranio pelato e occhio nudo, con dentro il dolore del mondo, vince la miglior prova della sua carriera. Il film è tattile, un germe, appunto, che prende posto nel subconscio in onore alla nostra estinzione, un incubo scenografico al grandangolo, talvolta irrisolto narrativamente ma gonfio di macabra fascinazione visiva e di alto potenziale emotivo. Uno per tutti, il volto di Bruce mentre ascolta «What a Wonderful World» di Armstrong alla radio.

E Gilliam, con le sue impennate grottesco surreali, con la sua bella confusione cinematografica, continua coerente a fregarsene delle leggi del tempo e dello spazio, utilizzando una macchina «wellsiana» per viaggiare negli anni, citando il «complesso di Cassandra». Piace il racconto nero e barocco sognato a cerchi concentrici, con il classico Willis, l'uomo che reincontrò se stesso, colui che vorrebbe vivere due volte come l'eroina di «Vertigo» di Hitchcock, ampiamente citato e protetto dalla colonna sonora di Herrmann, allarmante ieri come oggi, inserita in un puzzle e figlio di primo letto di sir Hitch e De Palma.






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