A Cannes la "fanta-storia" di Re Artù
di Giovanni Grazzini
Nozze d’oro tra la magia e l'avventura in Excalibur, il film dell’inglese John Boorman che difende i colori dell'Irlanda, dove è stato in gran parte girato per trarre partito da luci soavi e paesaggi d'incanto. Benché esca a giorni in Italia. Excalibur è un film natalizio, un nuovo inchino al cinema di fantasia buono per grandi e piccini, servito da scenari lussuosi, antri di streghe e feroci battaglie: ma anche nutrito dalla psicanalisi junghiana, da incesti e parricidi.
È una nuova versione del mito della Tavola Rotonda, ispiratrice senza tramonto di sogni e batticuore, dove stavolta il regista di Un tranquillo week-end di paura, di Zardoz, del secondo Esorcista tenta di leggere il destino dell'umanità costretta dopo il Medioevo a inseguire la chimera del connubio fra storia e natura.
Excalibur è il nome della spada fatata emersa dalle acque e alle acque destinata a tornare, che trasforma in re un umile scudiero e alla quale s'inchinano gli eserciti comandati da Artù, ma che non riesce a portare la pace: perché il male è inestirpabile dal mondo e nemmeno il Mago Merlino sa più come vincerlo.
Per la verità, stando al film, il gran vecchio ha cercato di metterla in buone mani, dando modo ad Artù di trarla dal macigno che la riservava al più valoroso, però non ha fatto i conti coi pettegolezzi che serpeggiano a corte sui rapporti fra la Regina e Lancillotto, né con la lascivia della Fata Morgana, sorella di Artù e, orrore, sua sposa.
Nemmeno ha previsto, Merlino, che la perfida pitonessa gli tolga ogni potere (salvo quello di apparire in sogno) imprigionandolo in una gabbia di ghiaccio. Ragion per cui, in mezzo allo strepito di ferraglie prodotto dai cavalieri armati fino ai denti, alle fughe degli amanti nelle foreste, e alle peripezie corse da Parsifal per trovare il calice col sangue di Cristo, il dramma di Merlino è anche una profezia: appunto sui secoli che verranno, bagnati di sangue, fin quando un nuovo re, mettendo da parte l'orgoglio della ragione, tornerà a credere nelle occulte virtù del sovrannaturale.
"Siamo tutti stanchi della troppa democrazia che ci circonda", dice John Boorman nelle interviste. Il suo film è perciò, se si vuole, un altro segno del neomedievalismo anticipato nel cinema da Quintet e dal Signore degli anelli che furoreggia anche in letteratura, caratterizzato a un gran bisogno d'autorità e di capricci "retrò". Non daremmo però troppo peso ideologico alla morale della favola, come non vorremmo azzardare confronti con i film più importanti che sui Cavalieri della Tavola Rotonda hanno fatto ultimamente Bresson e Rohmer.
Nuovo menestrello, Boorman si modella soprattutto sulla fantastoria e la fantascienza di Guerre stellari, Incontri ravvicinati, Superman, che qua e là cita nelle situazioni e nelle scenografie, mischiando la spettacolarità hollywoodiana a qualche eco di Klimt, il fastoso all'ironico, il sentimentale al gioco di prestigio.
Lungo oltre due ore, il film vuole essere di largo consumo, e quindi non pretende l'applauso degli specialisti nel ciclo bretone, ne degli antiquari esperti in armature (quanto agli attori basti dire che Nicol Williamson, nella cappa di Merlino, fa il verso ad Alec Guinness), e tuttavia si lascia vedere senza troppi sbadigli.
Ha il merito di dipanare anche per il grosso pubblico, semplificandola, la matassa dei romanzi di cavalleria. E, aiutato da Wagner e dai Carmina burana, di stenderci sotto gli occhi un arazzo d'amori e di giostre sul quale è forse dipinta la trama del nostro inconscio.
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