Depp, il cioccolataio per famiglie
di Tullio Kezich
Se Gide diventò celebre per aver lanciato il matto «Famiglie, io vi odio!», il cardinale Ruini si è guadagnato le prime pagine dei giornali con un'affermazione perfettamente antitetica: «Famiglie, io vi amo!». All'illustre prelato, paladino dell'istituzione familiare, mi affretto perciò a segnalare La fabbrica di cioccolato immaginando che sarà compiaciuto per la morale di un film riassumibile in questa modo: il cioccolato è buono, ma la famiglia è più importante di tutto. Da quando la pellicola di Tim Burton sta uscendo sugli schermi un po' dappertutto, gli esperti dibattono sulle differenze tra l'adattamento e il romanzo originale dell'inglese Roald Dahl (1906-1990).
È bene ricordare che «Charlie and the Chocolate Factory», pubblicato nel 1964, ha venduto nel mondo 13 milioni di copie (in Italia Salani è arrivata alla 21esima ristampa). Nel 1971 ne fu tratto un precedente film, «Willie Wonka e la fabbrica di cioccolato», che da noi passò inosservato mentre negli Stati Uniti è un appuntamento di rigore della Tv natalizia.
Vivacizzato dalle spiritose illustrazioni di Quentin Blake, il romanzo racconta l'avventura di Charlie (sullo schermo Freddie Highmore), un ragazzino povero che sembra uscito dalla penna di Dickens, il quale vive con mamma (Helena Bonham Carter), papà e nonni (il più saggio è David Kelly) in una baracca nelle vicinanze dell'imponente fabbrica di cioccolato del signor Willie Wonka, dove nessuno può entrare. Il titolare a un certo punto lancia un concorso per cui i cinque ragazzi che scopriranno un biglietto d'oro dentro le confezioni Wonka saranno invitati a visitare la misteriosa cioccolateria e alla fine del giro il prescelto riceverà un bellissimo premio. Fra i candidati è fortunosamente finito anche Charlie, che si distingue nell'eterogeneo gruppetto comprendente un'inglesina con un padre (James Fox) che la vizia, un'altra bambina superaggressiva, un tedesco lurco e un intossicato dei giochi elettronici. Dal canto suo Wonka, accompagnatore sornione, trova modo durante il percorso di infliggere dei solenni castighi ai quattro antipatici, per poi gratificare l'ottimo Charlie facendone addirittura il propria erede.
L'urgenza di designare un successore risulta più logica in Dahl, dove il benefattore è un personaggio d'età avanzata, come del resto appariva Gene Wilder nel film precedente, mentre tale preoccupazione sembra prematura riferita al poco più che quarantenne Johnny Depp. Il divo si presenta in costume edoardiano, con una «mascara» che sta fra Edward mani di forbice e il discusso Michael Jackson recentemente assolto in un penoso processo per pedofilia. In proposito Roger Ebert ha scritto: «Meno male che i bimbi ospiti di un tipo simile siano tutelati da accompagnatori adulti ...»
Nella melliflua e virtuosistica incarnazione di Depp, Wonka dà effettivamente luogo a qualche perplessità. Tanto più che il film, staccandosi dal libro, individua la causa remota della sua solitudine nel conflitto adolescenziale con il padre dentista (Christopher Lee), che si ricompone grazie alla mediazione di Charlie e il felice inserimento del cioccolataio nella famigliola del sua erede. Per le vie della complessità, il film approda insomma a una conclusione più esplicita e moralistica rispetto al disimpegnato surrealismo della pagina. Ciò che conta, però, è l'impeccabile gusto con cui Tim Burton inventa l'ambiente della favola, ispirandosi a Chagal e a altri modelli di pittura espressionista, nonché l'andamento di un racconto ritmato in un crescendo di buffi incidenti e svarianti trovate.
Bastava rinunciare alle troppe allusioni confuse e a una vaga morbosità, per fare di questo film un classica del cinema per ragazzi; ma La fabbrica di cioccolato va bene anche così.
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