Film ululì show ululà
di Filippo Mazzarella
Del grande successo di «Frankenstein junior», che giovedì sera diventa anche show al Mexico con la partecipazione attiva degli spettatori (come da anni succede nella stessa sala con «The Rocky Horror Picture Show»), abbiamo parlato con lo scatenato regista ottantaduenne, Mel Brooks.
Mr. Brooks, perché "Frankenstein junior" è ancora così popolare in Italia anche tra i giovanissimi, malgrado ormai non tutti (anzi, davvero pochi) possano cogliere le citazioni di base?
«Lei capisce il milanese?»
Si.
«Bene, allora le rispondo in napoletano: "nun saccio", non lo so. È incredibile, e ne sono ovviamente felice. Il film nacque come sberleffo a quelle pellicole horror: ma con ogni probabilità, oggi funziona come un qualcosa a sé».
«Frankenstein junior» è un caso unico: una parodia di classici che diventa a sua volta un classico.
«Credo sia anche merito della versione italiana. In genere non amo molto il doppiaggio, ma il lavoro che è stato fatto da voi (in particolare di adattamento) è superiore a quello degli altri Paesi europei».
«Il lupo ululà ... il castello ululì!»: chi non ricorda la battuta?
«Esatto! E Oreste Lionello (che dava la voce a Gene Wilder, ndr) ha fatto un grande lavoro.
Del resto, il vostro è un paese di grandissimi comici».
Sua moglie Anne Bancroft, vero nome Anna Maria Italiano, era figlia di emigranti, e lei conosce praticamente tutto il nostro cinema popolare. Ha influito sul suo modo di concepire il cinema?
«Moltissimo. Quando ho visto per la prima volta i film di Vittorio De Sica ho urlato: "Ecco! Voglio fare questo!". Nessuno come lui ha saputo fondere commedia e sentimenti. Io ho fatto un cinema più apertamente comico, ma certo in me c'è qualcosa della "lezione italiana", da Totò a Sordi. Inclusa, forse, la capacità di osservare una realtà anche non piacevole e deformarla sotto la lente della risata».
"Frankenstein junior" è il dvd di catalogo top in Italia, dove i campioni di vendite sono i cartoon Disney. Che effetto le fa?
Inebriante. Forse è anche merito del mio amico Ezio Greggio: non perde occasione per incitare i bambini a comprare i miei film.
In "Frankenstein junior" ha lanciato Marty Feldman, scomparso molti anni fa, e ha fatto emergere il lato comico del grande e compianto Peter Boyle che interpretava il mostro. Che ricordo ha dei due talenti?
«Aggiungo: credo di essere stato il primo a proporre un ruolo comico a Gene Hackman, che interpretava il frate cieco! Di Marty e Peter, le dirò: erano unici. Boyle era un genio. Il pubblico lo conosceva per cose drammatiche, come "La guerra privata del cittadino Joe" di Avildsen.
Con il mio film dimostrò la sua completezza. Però bisognava stare molto attenti, soprattutto durante le pause. Era gigantesco, e sempre affamato. Rubava i sandwich dai cestini-pranzo».
Tra le sue parodie, il sottovalutato «Che vita da cani!», del '91. Sguardo preciso sull'America di allora. E oggi?
«Le major hanno appena firmato un accordo con Hollywood per sostituire definitivamente la pellicola con il digitale: la proiezione in HD del mio film è dunque il futuro? Il mondo va avanti velocemente, e certo non senza problemi: la lotta Obama/McCain sarebbe un ottimo soggetto per una satira. Ma forse non serve: la realtà può essere anche più comica della finzione".
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