Crudeltà e tenerezza nell'isola di Borowczyk
di Leonardo Autera
Walerian Borowczyk è di gran lunga il cineasta più eccentrico e inquietante fra i molti (da Skolimowski a Polanski, da Zanussi a Wajda) che la Polonia ha disseminato per il mondo negli ultimi vent’anni. Lo dimostra meglio di ogni altra sua opera successiva questo Goto, l'ile d'amour, film "maledetto" che la distribuzione si è decisa a far conoscere in Italia (ad un pubblico selezionato) con quindici anni di ritardo. Primo lungometraggio "con attori" del regista affermatosi in precedenza nel campo di un cinema d'animazione di estrema avanguardia, Goto segna il momento cardine della poetica di Borowczyk, contrassegnato da una allucinata fantasia di matrice surrealistica che in seguito si sarebbe coagulata nell’erotismo estatico e barocco di opere quali I racconti immorali e La bestia.
Già nel 1968, in una corrispondenza per il "Corriere" da Knokke-le-Zoute - dove il film venne insignito del Premio Sadoul della -Confédération internationale des cinémas d'art et d'essai- Giovanni Grazzini definiva Goto "una fiaba singolare, guidata da sinistra fantasia figurativa". Certo, per gustare in tutta la sua crudeltà e tenerezza un'opera tanto strana, densa e complessa, bisogna sbarazzarsi degli schemi usuali dello spettacolo cinematografico e guardarla come se si leggesse un poemetto di Henri Michaux con tutto il suo surrealismo "raziocinante".
Se proprio si volesse indicarne la trama, basterà dire che siamo in un'isola che dal 1887, in seguito ad un sisma, è rimasta tagliata fuori dal resto del mondo. Concentrato di rovine e miseria, l’isola è governata da un despota, Goto III, che tiene sottomesso il suo popolo di abietti offrendogli spettacoli di ogni sorta di atrocità. In questo universo d'incubo, tre uomini amano la stessa donna di nome Glossia: il marito governatore, il giovane ufficiale Gono che le fa da maestro d'equitazione e con il quale lei sogna di fuggire verso la libertà, ed infine un ladro, Grozo, salvato dal patibolo per essere assunto da Gota III come guardiano dei suoi cani, come lustrascarpe e come cacciatore di mosche.
Per conquistare la donna Grozo intraprende una scalata sociale che ha del demoniaco e che va dall’uccisione del padre di lei a quella dell’ufficiale e infine del governatore di cui prenderà il posto. Ma nemmeno allora potrà avere Glossia, perché la donna gli sfuggirà e morirà. Ma è un epilogo con un punto interrogativo, in quanto la "morta" nell'ultima immagine, davanti ai disperati singhiozzi di Grozo, si rimette a respirare e riapre gli occhi.
Difficile tradurre il senso di questa parabola visionaria, trapunta di derisione e di ironia, di romanticismo e di umor nero, di bellezza e di bruttura.
Ma se ci si lascia trasportare dal flusso delle sue imprevedibili pulsazioni, dall’aggressività delle sue atmosfere, dalla straordinaria maniera di dar vita alla materia più inerte (per cui ogni sfondo e ogni oggetto hanno valore di personaggi), non si può non rimanerne ammirati. Come di fronte allo stile personalissimo che emana dal film, dove anche il più crudo dato realistico viene immediatamente rinnegato dal pittoricismo frontale e geometrico delle immagini, le quali, in un racconto dalle forme disintegrate, fanno spettacolo e significato per se stesse.
Da qui un'altra caratteristica precipua di Borowczyk: il suo "vouyeurismo" sensuale e feticistico (che poi è anche quello dei protagonisti di Goto, che si passano l'un l'altro il binocolo per spiare a distanza), emblematico sia del rituale erotico del regista, sia del suo temperamento cinematografico che lo porta ad aggredire la realtà per scrutarla e manifestarla oltre le apparenze.
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