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Tarzan, lord delle scimmie


di Giovanni Grazzini


L'urlo di Tarzan ha risuonato nella sala grande del Palazzo del cinema all'ultima mostra di Venezia (cosa impensabile sino a qualche anno fa, per l'offesa che avrebbe portato all'Arte ... ), ma non perciò ha leso la maestà della decima musa.

Infatti già lo dicemmo: questo non è un film da respingere come una bambocciata. Il regista Hugh Hudson e i suoi sceneggiatori Michael Austin e Robert Towne (quello di Chinatown, che qui ha scelto per pseudonimo il nome del proprio cane Vazak ... ) hanno mirato più in alto di quanti sinora – una quarantina - si sono spesi per la gioia dei ragazzi. Hanno chiamato il vecchio Tarzan a impersonare, scusate se è poco, il conflitto tra natura e civiltà, o per dir meglio tra due modi di convivenza animale. E vi hanno trovato la conferma di una teoria che delizia da tempo i tutori dei "ragazzi selvaggi": secondo la quale, visto che l'uomo nasce innocente e la società lo corrompe, si ha da recriminare sul suo destino, e compiacersi se taluno riesce a riacquistare la propria liberta nel cuore della foresta.

Tutte cose magari vecchiotte, ma che Hudson rinfresca calando le antiche domande nel vivo del cinema d'avventura, in maniera da impastare il mito dell'esotico con quello dell'angoscia esistenziale. Per cui va a rileggersi Tarzan alle fonti (il primo libro di Edgar Rice Burroughs apparve ne1 1912), chiama come fotografo il. John Alcott di Odissea nello spazio e come autore dei trucchi l'esperto Rick Baker, chiede consigli al prof, Roger Fouts che ha insegnato a parlare a una scimmia, trova nel ventisettenne americano d’origine francese Christopher Lambert un Tarzan aitante e belloccio, senza muscoli da culturista, e parte per l'Africa.

Dove appunto s'immagina che, naufragati nel 1885 i signori Clayton provenienti dalla Scozia, il loro pargolo John sia allevato dalle scimmie fin quando un esploratore gli restituisce l'identità di visconte e lo riporta nel suo castello avito, dove il giovanotto si fidanza con Jane.

Fine del film? Nossignore.

Dispiaciuto per la morte del nonno, sconvolto dall'aver trovato in gabbia, al museo zoologico di Londra, lo scimpanzé che fece da padre, infastidito dagli obblighi che gli impone la buona educazione, il nostro John (che ancora non sa di dover passare alla storia col nome di Tarzan) dà l'addio alla ricchezza, a Jane, al guardaroba, e se ne torna a urlare nella giungla.

Greystoke ha limiti evidenti nella puerilità del dibattito ideologico che suppone di poter avviare sulla base di quel caso romanzesco, ma nell'ordine del cinema popolare che suscita oneste emozioni ha non contestabile dignità. Costato quaranta miliardi di lire, è uno spettacolo d'impianto sontuoso sia nella prima parte, che reinventa allegramente il mondo delle scimmie, sia nella seconda ambientata in un castello da fiaba. Il personaggio più simpatico è il vecchio nonno eccentrico (il compianto Ralph Richardson), ma anche Tarzan ci soddisfa. Costretto a recitare per la massima parte a salti e rugli, Christopher Lambert evita i luoghi comuni del fumetto e restituisce al mito il senso che ebbe alle origini. A Venezia ci fu chi avrebbe voluto conferirgli il premio per il miglior attore ... Né la fotomodella Andie Mac Dowell sfigura nel ruolo di Jane.

Reduce da Momenti di gloria, Hugh Hudson si conferma così regista maturo. Combina leggenda e critica di costume insinuando doni della fantasia in un racconto realistico, si sofferma con garbo satirico su qualche aspetto della storia, e giustapponendo le acrobazie dei mimi camuffati da scimmie ai rituali mondani della buona società edoardiana conduce in porto la sua moraletta facendo contento il pubblico d'ogni età. Anche gli ecologi, anche gli psicanalisti, anche i nemici dei "fronzoli hollywoodiani".






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