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Il supereroe Will Smith, ubriaco e pasticcione "tradito" da troppe inquietudini interiori


di Paolo Mereghetti


A volte succede che ci siano dei film dove è più interessante scoprire che cosa c'è stato "prima" delle riprese - per sapere come si è arrivati a quel soggetto, come si è costruito il cast, chi si è impegnato nella produzione - che vedere «poi» il film finito. Capire come prende forma il prodotto piuttosto che limitarsi a fruire il prodotto. Perché in un'industria dove sembra tornata di moda l'assemblaggio fordista - un pezzo qui e un altro là, un'idea originale e un obbligo contrattuale, un «plagio» televisivo e un nuovo effetto speciale - i «segreti» di bottega (ammesso che poi segreti siano) sanno dire qualche cosa di più della semplice visione del prodotto finito.

Succede anche in Hancock, che la critica americana ha considerato un passo falso del protagonista Will Smith ma che il pubblico ha comunque premiato al botteghino (più dì 226 milioni di dollari in otto settimane di programmazione). E che in una stagione italiana che sembra stentare a partire - Kung-fu Panda ha incassato decisamente meno di Shrek terzo, uscito l'anno scorso nello stesso periodo - sembra destinato a ripetere la medesima dicotomia tra giudizio critico e accoglienza popolare.

L'«operazione» Hancock dà l'impressione di essere stata costruita più su un compromesso produttivo che su una originale trovata di sceneggiatura. Perché l'idea del super eroe in crisi d'identità, stanco del proprio ruolo e tormentato dalla propria unicità (come è appunto la natura di John Hancock, interpretato da Will Smith) poteva essere molto più coerentemente sviluppata lungo tutto l'arco del film e non abbandonata troppo presto per dare al film una svolta a sorpresa. Così la trovata di mostrare un Hancock svogliato e ubriacone, che quando interviene con i suoi ultra poteri (vola, è invulnerabile, è fortissimo, eccetera eccetera) combina più disastri che risultati positivi, tanto da sentirsi dire dal sindaco di Los Angeles di emigrare per un po' a New York, finisce per sembrare solo un modo per aggiornare in negativo la figura ormai di moda - e forse inflazionata- del super eroe.

Quando ìnterviene sul luogo del crimine rompe le insegne stradali, quando vola urta (e distrugge) i palazzi, quando evita che un'auto venga investita da un treno innesca un incidente ferroviario ... Nessuno lo vuole, se non fosse per un addetto alle pubbliche relazioni decisamente idealista (Jason Bateman) che si mette in testa di aiutarlo, spingendolo persino ad accettare di essere rinchiuso in galera per saldare i «debiti» che i suoi interventi hanno creato pur di permettergli di ricostruire la propria immagine.

Fin qui tutto sembra giocato sulla disattesa delle aspettative e sulla forza dell'ironia, un po' come succede quando si fa entrare un elefante in una cristalleria. Con tutte le differenze del caso; la comicità ricorda alla lontana quella di Stanlio e Ollio, ugualmente distruttiva e anarcoide. Niente di nuovo ma tutto molto plausibile e «funzionale»: serve a Will Smith per mostrarsi in modo diverso al pubblico e conquistare chi magari nemmeno sapeva cosa fosse La ricerca della felicità (il suo film «impegnato», diretto da Muccino senior) e offre a chi gli aveva permesso di interpretare film più ambiziosi l'occasione di un incasso più o meno sicuro (ecco come spiegare i tre produttori che affiancano la star: James Lassiter, storico socio di Smith; Michael Mann, che con Ali gli aveva fatto vincere la sua prima nomination all'Oscar; e Akiva Goldsman, sceneggiatore di Io, Robot e Io sono leggenda).

Peccato che a metà la storia cambi registro e invece di usare la moglie dell'esperto di pubbliche relazioni (una Charlize Terhon che sa «cambiare» volto a ogni film) come elemento di disturbo sentimentale (anche i super eroi potrebbero innamorarsi), il film si inventi una colpo di scena che non riveliamo ma che lo porta verso altri percorsi, più «seri» e meditabondi, abbandonando la leggerezza e l'ironia del protagonista pasticcione per fargli vestire gli abiti del super eroe tormentato e ambiguo, che cita Frankenstein e parla di destino.

Anche questa svolta può avere una spiegazione «a tavolino» ed essere letta come il tentativo, dopo una prima parte più spensierata e infantile, di interessare un pubblico (leggermente) più adulto e riflessivo, ma finisce inevitabilmente per contraddire quello che si è visto fino ad allora e corroborare la sensazione di un'operazione soprattutto di marketing, dove l'attenzione è più sugli elementi da assemblare (l'equilibrio del cast, il peso degli effetti speciali, la conquista di pubblici diversi) che sul modo in cui quegli elementi contribuiscono a creare una storia coerente.






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