Un samurai da videogame
di Maurizio Porro
Il motto delle "Guerre stellari" di Lucas, "che la forza sia con voi", ha fatto proseliti e invece di puntare sul futuro, ora fa un salto in flash back di quattro secoli e pretende, per rendere ancor più epica l'avventura, il dono dell’immoralità.
Quel ragazzo che, in un garage sotterraneo di New York, in impermeabile casual si batte con anima, corpo e fiammeggiante spada, come un samurai da videogame del xx secolo, fino a tagliar netta la testa al misterioso nemico, viene in realtà dalla Scozia del 1536.
Chiaro? Iniziò allora, nelle "highlands", zone montagnose e nord occidentali del Paese, dove crebbero clan di guerrieri robusti, indomabili e fieri, l'incredibile avventura di Conner McLeod, costretto a fuggire dopo essere miracolosamente scampato alla mortale ferita del feroce nemico Kurgan.
Andando su e giù nello spazio e nel tempo, con un procedimento prima affascinante e poi meccanico, il film fa combaciare i due ritratti: quello del forte guerriero scozzese, reso consapevole della sua immortalità dal cavaliere spagnolo Ramirez, anch’egli senza problema di anagrafe, e quello del giovane antiquario di Manhattan, forte di una spada e di uno sguardo miope e penetrante. È sempre lui, Mcleod, che gioca la sua ultima partita contro il Male, giacchè ora il perfido Kurgan è un violento guerriero della notte metropolitana: ne deve rimanere uno, non possono sopravvivere due immortali. Che vinca il migliore, cioè McLeod, non c'è ombra di dubbio, ma il duello finale sarà da Apocalisse. Il potere sarà alla fine suo, che così può conoscere tutti i pensieri del mondo, ma che per il momento si accontenta di avere vicino una ragazza fedele.
In Highlander, l'ultimo immortale, il regista inglese Russell Mulcahy, esperto in video clip (ha fatto le video fortune dei Duran Duran, di Boy George, di Rod Stewart, di Elton John), dopo il mediocre debutto di «Razorback», prende il cinema di petto e lo investe con una notevole carica visionaria.
La sua cinepresa - che poi si chiama "steadicam" e "skycam", cioè, una camera che viaggia in direzioni insolite, verso l'alto, o di corsa, come su un ottovolante - non sta ferma un attimo, il ritmo è notevole, la fascinazione visiva anche, grazie alle cupe atmosfere che sa ricreare e alle gotiche paure che sa diffondere negli altipiani minacciosi della Scozia come nei panorami nuovayorkesi, tenebrosi. Originale, non c'è dubbio, perché tale è l'ottica delle insolite riprese e tutta la storia fa leva sull'incredibile forza dell'incubo, sul fascino delle epoche con contrapposte, e la paura del vivere in eterno.
Naturalmente c'è anche il rischio, non sempre evitato, che tutto ciò diventi un puro espediente, che ci siano ripetizioni, che la logica del racconto ne soffra, che non si riesca ad acciuffare il carattere vero di questi personaggi in corsa nel vento. Emozionalmente, soprattutto in certe sequenze in cui l'inconscio detta legge, il film di Mulcahy è promosso a pieni voti, peccato che gli manchi ancora l'ineffabile concatenazione della struttura e la simpatia umana e concreta dei protagonisti. Come teorema visivo, tanto di cappello: certi angoli di paradiso e di inferno sono visitati con una potenza di riprese e di montaggio fuori dall'ordinario, e ne fa garanzia l'assurdo come punto di partenza.
Si tratta alla fine di una mistica di fede, per arrivare alla dimostrazione che un Dio esiste, venne dalla Scozia, arrivò a Manhattan, e si esercitò nella violenza contemporanea. Il duello del finalissimo è di bellezza sconcertante, con quel luogo del Nulla su cui vigilano altissime vetrate, quasi da chiesa, e dove scoppierà poi la festa del paranormale, E che questo Immortale abbia le sembianze, gli occhi teneri e incerti, l'aria dolce, svagata e solitaria di Christopher Lambert farà piacere ai molti estimatori del nuovo divo, cui non manca certo il carisma o il dono della personalità, specie considerando che non avrebbe le "phisique du rôle" per indossare i panni ruvidi del guerriero, anzi, lui è un nostro coetaneo che mendica prove di affetto. Ma Lambert è bravo perché, come in «Greystoke», si gioca contro e vince.
Connery fa con astuzia e qualche ridondanza all'inglese il classico personaggio del sorridente saggio che svezza il giovinetto. Ruolo in tinta con quello di Alec Guinness in «Guerre stellari». Ma qui non siamo in un altro pianeta, e Mulcahy probabilmente si sforza proprio di dirci che ogni riferimento alla nostra realtà non è puramente casuale. L'incubo nasce dall'incubo.
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