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Gare mortali tra ragazzi: videogioco senz'anima


di Paolo Mereghetti


Travolti da una montagna di incassi (359 milioni di dollari negli Usa fino al weekend scorso, 272 milioni in euro. E non è finita), sommersi da «spiegazioni» e «informazioni» di ogni tipo (la prossima settimana Castelvecchi pubblicherà ben due guide ufficiali all'evento: al film e ai «tributi», cioè ai protagonisti), si rischia l'overdose.

Così come indicare una possibile ascendenza cinefila (La pericolosa partita, 1932, di Schoedsack e Pichel) può innescare una libertà interpretativa che il film di Gary Ross non merita e non giustifica. Diciamolo subito: i riferimenti alla storia di Roma antica sono da fumetti, in linea coi centurioni a pagamento con cui i turisti si fanno fotografare davanti ai Colosseo; i rimandi alle divisione tra «poveri» e «ricchi» (che di scontro di classe non si può proprio parlare) sono talmente schematici da sfidare il ridicolo; e le allusioni alla dittatura dei media sono così superficiali e folcloristiche da giustificare l'idea che siano state messe lì per «imbrogliare» un po' le carte, furbesco tributo allo spirito dei tempi.

Questo non vuol dire che il film non funzioni come giocattolone adolescenziale, ma il suo posto è più tra i videogame e i gioco di ruolo che tra i titoli che segnano la storia del cinema. E anche pensando solo a quella degli incassi (dove è già entrato di diritto tra i primi cinquanta film di tutti i tempi) coltivo la tenue speranza che il successo in terra americana non venga bissato - almeno in proporzioni simili - anche da noi. E non per disprezzo verso il «pubblico» ma per «amore» verso il cinema e per fiducia in un maggior livello di «maturità» degli adolescenti italiani. Come una martellante campagna autopromozionale si è già preoccupata di farci sapere, il film è tratto dal primo dei tre romanzi di Suzanne Collins (pubblicati in Italia da Mondadori) e ambientato in un futuro post-moderno e post-apocalittico, nello stato di Panem (gli antichi Stati Uniti): come punizione per un’antica ribellione al potere centrale, da 74 anni si svolgono gli «hunger games», a cui i dodici Territori nazionali mandano ognuno un ragazzo e una ragazza tra i 12 e il 18 anni per un combattimento all'ultimo sangue.

A filmare chi sarà l'ultimo sopravvissuto ci pensa una specie di grande fratello televisivo, i cui programmi vengono seguiti con comprensibile apprensione dai Territori e con divertito cinismo dai ricchi privilegiati che abitano la capitale del Paese.

Nella prima ora dei 142 minuti di film, veniamo messi a conoscenza della rigida divisione sociale che vige a Panem, più variegata nel romanzo e più drammatica nel film, che ci mostra solo i poverissimi minatori del dodicesimo Territorio, quello da cui provengono i due «tributi» Katniss, (Jennifer Lawrence) che si è offerta volontaria al posto della sorellina minore sorteggiata, e Peeta (Josh Hutcherson). Scopriamo chi muove le fila del combattimento (Wes Bentley) e chi quelle del potere politico (Donald Sutherland), quali sono le regole del combattimento e quelle dello spettacolo (guidato da un inquietante Stanley Tucci). E soprattutto ci sforziamo di orientarci tra i vari indizi che la sceneggiatura (del regista, dell'autrice dei romanzi e di Billy Ray) lascia ogni tanto cadere: l'importanza del look (c'è Lenny Kravitz a occuparsi di quello di Katniss e Peeta), del bisogno di ingraziarsi gli spettatori abbienti (chiamati apertamente sponsor dal «consigliere» Woody Harrelson), di far colpo sul romanticismo di chi guarda e soprattutto sul ruolo di «circenses» cui tutti i «tributi» sono costretti dalle regole di Panem.

Peccato che tutto o quasi venga abbandonato nella seconda parte del film, dove seguiamo soprattutto la lotta dei due rappresentati del dodicesimo territorio per sopravvivere: senza una vera spiegazione diventano loro i «buoni» per cui tifare mentre uno dopo l'altro vengono abbandonati o dimenticati gli elementi «sociologici» scoperti nella prima parte. Resta, com'era prevedibile, un sotto fondo di rozzo darwinismo sociale (la lotta per la sopravvivenza) appena un po' riscattato dal solito «omnia vincit amor». Con buona pace di chi si era immaginato letture più complesse e profonde, non dico come Il signore delle mosche (di Golding e Brook) ma nemmeno come Battle Royal (di Fukasaku), mentre La pericolosa partita con i suoi inquietanti incubi fantastici sembra lontanissima. Anche per via di una certa ipocrisia visiva, che cancella le immagini più cruente dei duelli all'arma bianca, proprio quelli che potrebbero offendere non certo lo spettatore ma piuttosto il rigidissimo censore americano.






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