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Jim nel caos della guerra


di Giovanni Grazzini


Quante volte si è detto, si è scritto che le prime vittime delle guerre sono i bambini, costretti a crescere nelle miserie e negli orrori?

A ribattere il chiodo sopravviene uno Steven Spielberg che lasciando ancora da parte fantascienza e fantarcheologia ripercorre il viale del romanzone (per Il colore viola si rifece ad Alice Walker, qui si ispira a James G. Ballard) e ci narra i casi del ragazzino Jim Graham.

Figlio di ricchi inglesi residenti a Shanghai, nel 1941 Jim ha undici anni: canta nel coro della chiesa, colleziona modellini di aerei, sogna di fare il pilota, partecipa a feste mascherate. Ma la guerra è alle porte, i giapponesi occupano la città, cominciano i bombardamenti, il panico trionfa. Separato dai genitori, con la sua casa requisita e saccheggiata, Jim deve arrangiarsi: istruito da due ribelli americani, impara a sopravvivere nella città preda del caos e nel campo di concentramento in cui assiste a penosissime scene. Si ciba di vermi per vincere la fame e si salva a stento dalle rappresaglie nipponiche, ma non cessa dall'entusiasmarsi per le imprese aviatorie.

Addirittura in visibilio lo mandano i cerimoniali recitati dai kamikaze prima di partire per le loro azioni suicide.

Si arriva così al 1945, quando Jim un giorno d'agosto vede un lampo di luce bianca (è l'atomica su Nagasaki), poi perde un coetaneo con cui ha fraternizzato, ed esulta per l'arrivo dei parà americani.

Fuori di senno per quanto ha visto e patito, il ragazzo finisce col ritrovare i genitori, ma il suo abbraccio alla mamma è senza sorrisi quando la città è in festa per la liberazione. Chissà da quante cicatrici è rimasto segnato...

Il largo consenso ottenuto dall'Impero del Sole negli stati Uniti è comprensibile, data la prestanza spettacolare del film e la soddisfazione di un certo pubblico nel vedere che Spielberg, raggiunti i quarant'anni, vuole consolidare la propria immagine di autore impegnato in temi severi: nel caso quella che chiama la morte dell'innocenza, colta nel traumatico passaggio di Jim all'età adulta. Meno giustificato, ci sembra il cadere in estasi per le qualità drammaturgiche del film. Il quale è per tanti versi partecipe del genere «avventura», zeppo di peripezie, ma spesso noiosetto nonostante l'eccezionalità degli eventi, paradossalmente convenzionale in vari luoghi, più lento e lungo del giusto (oltre due ore e mezzo).

Le grandi masse a cui fa ricorso, la musica di John Williams, l'encomiabile sforzo produttivo compiuto per ricostruire la vecchia Shanghai e i superbombardieri d'epoca sono insomma ancora una volta le funi portanti d'un cinema di largo consumo il quale inventa ormai poco o niente, nonostante che la sceneggiatura di Tom Stoppard conferisca al personaggio di Jim e a quelli di Basie e Frank (i due americani) buon numero di sfaccettature e certamente non manchino le conferme della bravura tecnica con cui Spielberg rappresenta momenti epici di suggestiva visionarietà e affolla di colori il suo colosso.

Per la parte di Jim il regista (anche coproduttore) ha avuto la mano felice rivolgendosi al ragazzo Christian Bale, proveniente dalla Tv inglese, né Spielberg ha compiuto errori nell'affidare a John Malkovich e Joe Pantoliano i ruoli di Basie e Frank, e a Miranda Richardson quello della signora Victor, l'amica di famiglia che protegge e turba il nostro piccolo eroe. Cos'è allora che, tutto sommato, rincresce?

Forse il modo con cui il maestro di Cincinnati celebra quella riconsacrazione del racconto scritto a cui proclamò di voler tornare per riscoprire il valore della parola. Quel velo di polvere, quell'ombra di neoclassicismo…






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