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DiCaprio scava nell'inconscio tra tortuosi labirinti mentali


di Paolo Mereghetti


La morale non è nuovissima (a scavare nell'inconscio degli altri si rischia di dover fare i conti con quello che è nascosto nel proprio. Detto banalmente: tanto va la gatta al lardo ... ) ma la forma è decisamente sontuosa e alla fine delle due ore e 25 minuti di proiezione c'è bisogno di un po' di tempo per riorganizzare le idee e mettere in forma più o meno razionale l'intrico di sogni, mondi paralleli e trappole psicoanalitiche in cui il regista Christopher Nolan ha immerso lo spettatore.

Di rara complicazione, la sceneggiatura di Inception ruota intorno all'attività «non propriamente legale» di Dom Cobb (Leonardo DiCaprio), capace di entrare nei sogni - ma sarebbe meglio dire nell'inconscio – delle persone per rubare loro segreti da rivendere ai concorrenti. Un'evoluzione molto sofisticata dello spionaggio industriale, che fa penetrare il «ladro» nei mondi onirici delle sue vittime per spingere la preda a rivelare quello che si vuole rapinare e che ha bisogno di complici-architetti e complici-attori per ricreare i mondi fantasmatici in cui affrontare e «scardinare» le difese oniriche delle loro prede.

Detto così sembra (più o meno) facile ma un cliente (Ken Watanabe) chiede a Dom un lavoro più complicato: non rubare ma innestare nella mente di un concorrente, Robert Fischer junior (Cillian Murphy), un'idea che lo spinga a smantellare l'impero industriale di cui è appena diventato responsabile.

Tutto semplice - si fa per dire - anche se in questo viaggio onirico i sogni si accavallano uno dentro l'altro (a un certo momento una complice di Cobb si chiede: «Ma in quale sogno siamo adesso?» e la domanda la vorrebbe fare anche lo spettatore) ma a complicare ulteriormente le cose ci si mette anche l'inconscio del protagonista, talmente ossessionato dalla morte della moglie Mal (Marion Cotillard) da trovarla dentro i mondi onirici delle proprie vittime e spesso nel ruolo di un «nemico» che gli intralcia il cammino. Intrecciando in questo modo in maniera sempre più stretta due storie che hanno sempre lo stesso protagonista: quella del «furto» nella mente di Fìscher con quella dei propri sensi di colpa per la morte della moglie (perché il giochino di entrare nei sogni uno dell'altro lo avevano sperimentato a lungo anche Dom e Mal, sfruttando - per vivere in maniera più intensa il loro amore - la sensazione di dilatazione temporale che offrono i sogni, che nella realtà durano minuti o addirittura secondi ma sembrano molto più lunghi ai loro creatori. Però finendo per far perdere alla moglie il senso di realtà e spingendola verso il baratro della follia e della morte).

Trasformare in immagini questi tortuosi labirinti mentali era la grande sfida del film, soprattutto cercando di fare ricorso il meno possibile agli effetti digitali (indispensabili per mostrare Parigi che si ripiega su se stessa come una scatola che si chiude, ma evitati per molte altre scene, come quelle delle scale che cambiano inclinazione o dei corridoi ruotanti, realizzate con «normali» trucchi meccanici).

Nolan lo fa ricorrendo a «citazioni» celebri: i disegni di Escher naturalmente (e del suo «maestro» Piranesi), ma anche molto cinema, da 007 - Al servizio segreto di sua maestà (per il «sogno» sulla neve) a 2001 Odissea nello spazio (l'incontro, sempre nel sogno, tra Fischer e suo padre sul letto di morte) da Il pianete della scimmie (le spiagge con i ruderi che si fondono con le rocce) a Matrix (il mondo «reale» che cambia sotto i nostri occhi). Ma sarebbe curioso sapere quanto abbia lavorato sull'inconscio di Nolan un autore con Philip K. Dick e il suo capolavoro Ubik.

Detto questo, la parte visiva del film si rivela alla fine quella più debole, troppo preoccupata di riempire ogni secondo del film per riuscire davvero a creare nuove mitologie visive (e la «citazione» della girandola infantile fa rivalutare la cosa più debole di Quarto potere: la sfera di neve Rosebud). Molto più interessante, invece, l'idea che la messa in discussione della realtà e delle sue certezze non nasca da qualche disfunzione tecnologica o invenzione fantascientifica ma dal più antico e risaputo meccanismo di «compensazione» del reale: l'elaborazione onirica dell'uomo. Così come mi sembra più interessante (e produttivo) fare i conti con gli incubi di Cobb che smarrirsi nei sogni multistrato di Fischer. I secondi chiedono allo spettatore solo un piccolo sforzo di creduloneria, i primi ci interrogano sui segreti dell'amore Umano, sul rapporto di coppia, sui sacrifici che ogni relazione esige e soprattutto sull'importanza che le nostre «proiezioni» hanno nelle aspettative dell'altro. Tutti temi su cui, alla fine del film, viene voglia di ripensare, dimenticando in fretta le città che esplodono o gli specchi che modificano lei prospettive.






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