Inutile piangere sul sangue versato
di Tullio Kezich
Per me il nome da mettere sopra il titolo di Intervista col vampiro è uno solo. E non è quello di Anne Rice, locupletata autrice dell'omonimo romanzo (1976); né quello di Neil Jordan, divenuto un regista di prima categoria dopo «La moglie del soldato»; e neppure quello della star Tom Cruise. Il nome che va di diritto sopra i titoli del film è quello dello scenografo Dante Ferretti; e a questo punto cavallerescamente mi correggo, c'è anche da mettergli accanto la costumista di «Orlando» Sandy Powell.
Sono questi due artisti che trasferendoci dalla New Orleans del '700 al Bayou, dalla monumentalità e bassifondi della Parigi ottocentesca alla San Francisco postmoderna di oggi, rendono lo spettacolo degno di essere visto e ce ne imprimono talune immagini nella memoria. Forse perfino in maniera indelebile: Ferretti ha imparato la «magnitudo» della fabbrica del cinema nel lungo rapporto fraterno con Fellini, ma passando attraverso le rivisitazioni metastoricbe di Pasolini e il soggiorno meditativo nel monastero di «Il nome della rosa». Dopo le tre nominations già ottenute dal nostro scenografo, suona l'ora della quarta; e, speriamo, dell'Oscar.
Altro di questo film non vi saprei narrare. Ho una speciale antipatia, tutti abbiamo i nostri limiti, per il vampirismo; e ne detesto tanto le rappresentazioni al sangue (qui, figuratevi, si sgranocchiano i topi) quanto le interpretazioni intellettualistiche del fenomeno: plagio, omosessualità e via con la metafora.
Per cui fra un paio d'anni, quando nel '97 si festeggerà il centenario di «Dracula», non mi vedrete fra i turibolanti sotto l'erma di Bram Stoker. Figuratevi quanto poco poteva appassionarmi un libro come quello di Anne Rice, 362 pagine nell'edizione Salani per raccontare i tormenti di un non-morto piangendo con lui sulla triste sorte del vampiro che una volta morso non può sottrarsi al suo fatale andare. E tuttavia sono costretto ad ammettere che in un romanzo quasi tutto virgolettato (è la confessione del vampiro Louis, classe 1766, vittima del supervampiro Lestat, a un intervistatore dei giorni nostri) qualcosa di personale c'è. Da una parte la figuretta risentita di Claudia, la bimba fermata nella crescita per avvenuto vampirizzamento: un personaggio insolito, ritagliato nel dolore dell'autrice per la perdita della figlia. Dall'altra parte, nel tratteggio di certi sfondi, si disfrenano l'odio e l'amore della Rice per la propria città natale, New Orleans, luogo di riti satanici in cui è affondata la meschina Ylenia figlia di Romina. Il che ci fa riflettere, contraddittoriamente, che queste vicende di orrore e mistero non sono poi tanto lontane dalla realtà; e forse si consumano anche nella cronaca di tutti i giorni. La Rice ha scritto di sua mano la sceneggiatura, adattando circostanze e tipologie del libro alle esigenze del cinema. Per esempio la coppia (incestuosa?) di Louis e Claudia, in quel tour europeo che somiglia tanto ai viaggi di ricollocazione esistenziale di Henry James, sullo schermo non arrivano in Transilvania a scontrarsi con i degradati vampiri indigeni.
Il limite del film di Jordan è che abbaglia e non convince, impressiona e non commuove. Forse per un motivo molto semplice: nelle storie di questo genere lo spettatore di solito è indotto a identificarsi con la vittima, qui gli si chiede di identificarsi con il vampiro. I mostri sono truccati in maniera originale (nomination anche per la truccatrice Michele Burke?): visi pallidi, vene bluastre, labbra ben rosse, denti appena aguzzi. E Tom Cruise (Lestat), Brad Pitt (Louis) e la ragazzina Kirsten Dunst (Claudia) formano un trio d'inferno. C'è anche la nostra bella Domiziana Giordano, recentemente assurta alle cronache giudiziarie per aver ospitato nel suo appartamento parigino un latitante di Tangentopoli: con quel nome, Mach di Palmstein, che fosse un vampiro anche lui?
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