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Ironia, gag e sorprese: la lotta di Downey jr. diventa commedia


di Paolo Mereghetti


Dura la vita dei super-eroi! Finiti ormai anche i super-problemi - secondo la formula che ha fatto la fortuna dei fumetti Marvel per decenni - il cinema cerca di allungare l'interesse del pubblico per i suoi blockbuster giocando su due binari, quello della tecnologia non più così infallibile (almeno per i "buoni", che per i «cattivi» è un altro discorso) e quello dell'autoironia, nuovo e più invincibile sistema per incrinare le certezze supereroiche dei suoi protagonisti.

Un percorso che calza a meraviglia con la spocchia e la iattanza del personaggio di Tony Stark (Robert Downer jr.), miliardario e fanta-scienziato troppo sicuro di sé per non dover fare i conti con la fallacia delle sue invenzioni e soprattutto con fallimento delle sue certezze tecnologiche. A cominciare dall'invincibilità della sua corazza volante.

Certo, in questa terzo episodio, (che però rivendica legami forti anche con The Avengers, dove Iron Man era solo uno dei partecipanti) c'è anche il cattivo di turno ma più che raccontare la lotta di Tony Stark/Iron Man contro il vendicativo Mandarino (Ben Kinsley, con un naso preoccupantemente adunco), il film costruisce il suo interesse sulla lotta che Stark deve fare con se stesso, le sue angosce e la sua (momentanea) inefficienza eroica.

Come spesso in questi film che devono giocare con le attese dei fan ma anche con la loro enciclopedica preparazione, l'espediente narrativo più usato è quello di un reboot, di una «ripartenza» che stava nel passato dell'eroe per svelarne qualche particolare poco noto. Con Iron Man 3 torniamo indietro al Capodanno 1999, quando Stark non aveva ancora il reattore cardiaco al palladio installato nel petto e invece giocava a fare il playboy ma non sapeva; poveretto, che la sua «preda» (Rebecca Hall) si sarebbe in futuro rivoltata contro di lui. Anche per colpa di un capellone sciancato (Guy Pearce) che quella stessa notte Stark abbandonava sul tetto di un albergo, al freddo.

Quando torniamo ai giorni nostri, Stark è diventato Iron Man, sempre apparentemente sicuro di sé e delle sue tecnologie - un po' meno del rapporto con l'eterna fidanzata Pepper (Gwyneth Paltrow). Ci penseranno le apparizioni televisive del misterioso Mandarino a scatenare le sue insicurezze; anche perché sembra dotato di un personale esercito di superuomini, non solo super-armati ma loro stessi dotati di strani e misteriosi poteri.

Inizia così la lunga "odissea" erratica di Stark, catapultato lontano da casa, senza i suoi tradizionali congegni militari, costretto a fare amicizia con un ragazzino piuttosto sveglio ma un po' impertinente (Ty Simpkins), che il film racconta con un'abbondanza fin esagerata di umorismo e scanzonata ironia.

Più che alle difficoltà di un eroe privato dei suoi poteri, per buona parte del film assistiamo al tentativo di un (ex) eroe di arrabattarsi alla meglio con un mondo che non sembra fatto assolutamente a misura di eroismo.

Dove hanno il loro peso l'avventura non proprio esaltante che l'aveva visto alle prese con gli altri super-eroi in The Avengers (di cui gli è restata un'angoscia esiziale) e la scoperta di alcuni difettucci personali come la supponenza e la distrazione (la gag più riuscita è lo scontro con un autotreno non visto, che manda in frantumi l'armatura).

È indubbiamente un modo per raccontare in maniera diversa una storia sempre un po' uguale a se stessa (il super-eroe vince sempre), cercando le risate e la leggerezza della commedia.

Fin troppo, verrebbe da dire, perché questo ricorso continuo all'ironia, che non risparmia nemmeno il personaggio del terrorista para-islamico (con una gag infantilmente scatologica) finisce inevitabilmente per togliere tensione alla storia: non aspettiamo con ansia quello che sta per succedere al nostro eroe ma pregustiamo con piacere la battuta o la gag che siamo sicuri di trovare. Un meccanismo che finisce per trasformare in barzelletta anche la parte più seria del film, quella che alla fine di due ore di film svela l'origine del Male (e del Cattivo) e che chiama in causa la stessa America.

In altri film tutto sarebbe stato costruito per arrivare a questo svelamento finale, lasciando nello spettatore il dubbio sulla veridicità dell'ipotesi. Qui sembra l'ennesima gag usata per l'ennesimo colpo di scena, funzionale ad alimentare quelle ipotesi complottistiche che minano all'origine l'ipotetica credibilità del film. E ne sottolineano la natura irrealisticamente «infantile»: un giocattolone colorato e rumoroso, che «esplode» alla fine in un tripudio di esplosioni, scontri ed effetti speciali, dove le bombe si confondono coi fuochi d'artificio e un esercito di Iron Men annuncia il quarto, inevitabile sequel. Preparatevi, gente.






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