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Nella Manhattan-carcere l'unico eroe è una Jena


di Maurizio Porro


Per "vendicarsi" della Manhattan nostalgica e ciarliera di Woody Allen, il trentatreenne John Carpenter. sorretto da una rara potenza visionaria e disinteressandosi completamente di ogni problema "privato", immagina in 1997: Fuga da New York (Escape from New York) che l'isola di Manhattan sia, a quella data, già da nove anni ridotta a penitenziano a vita degli Stati Uniti.

Circondata dalla polizia, che vieta ogni fuga e vigila dalla Statua della libertà, Manhattan è ridotta a scempio, abitata da brutali criminali, violenti gladiatori del futuro, guerrieri della notte di ogni ordine e grado.

Un inferno senza più traccia di vita civile dove una notte cade l'aereo con a bordo il presidente degli States. Rapito e tenuto in ostaggio dal temibile Duke, cattivo di colore, il primo cittadino viene offerto al Potere in cambio delia libertà di tutti i criminali. Per salvarlo, allora, il capo della polizia propone a Snake Plissken, detto in italiano "la Jena", ex ribelle in procinto di essere imprigionato, la grande occasione: liberi il presidente e sarà libero a sua volta. Se non ci riuscirà entro 24 ore una capsula a tempo lo farà esplodere.

Ed inizia la sfilata degli incubi, le tenzoni, le lotte, in un paesaggio abitato solo dalla violenza, dove ogni tanto riconosciamo a stento luoghi oggi mitici (il Radio City Music Hall, il Madison Square Gardern). Ma Broadway è un cimitero e in questo mondo livido e notturno il regista mette soltanto una volta, in una scena al Central Park, i colori del giorno. L'andamento da western metropolitano (la scelta degli attori è sintomatica, al proposito), con l'eroe che sembra quello "senza nome" di Clint Eastwood e ha una benda nera su un occhio, assicura un finale che, pur mettendo in salvo il presidente, sarebbe assurdo definire "lieto".

Fantastico, geniale e volutamente senza raffinatezze, soprattutto dal punto di vista visivo, il film di Carpenter è un incubo a mura chiuse dove la più grande metropoli del mondo estrinseca al massimo grado tutte le sue potenzialità negative conscie e inconscie. Il cinema di Carpenter (Halloween, Fog, ma quest'ultimo film si imparenta se mai con l'opera del suo debutto, Distretto 13), così denso e viscido, lascia poco spazio ai proclami di principio. È tutto teso nella sua unità di stile, compatto nella sua violenza, e non cede alla tentazione di far la morale.

È tutto sottinteso, anche se alla fine Carpenter gioca una doppia verità: i cattivi sono vinti, ma anche l'eroe negativo vince sull'establishment.

Ma il film è da prendere tutto e subito, nella forza del suo impianto scenografico, ricostruito in studio, nel vigore iperrealistico con cui traduce i timori dell'inconscio collettivo, nella dichiarata ingenuità dei personaggi e nella sua straordinaria sintesi di rappresentazione. Insieme a Van Cleef, Borgnine e Pleasance, troneggia, truce, impavido e nerboruto ras di questo medioevo molto prossimo venturo, Kurt Russell che, dopo aver fatto scuola nella palestra Disney, è stato Presley nell'Elvis di Carpenter. La musica, più che mai appropriata, accentua la tensione. L'immaginazione, del cinema è stavolta al potere.






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