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I misteri dell'uomo come effetti speciali


di Maurizio Porro


Quando 2001: Odissea nello spazio uscì, non a caso nel 1968, molto prima dell'arrivo dell'uomo sulla Luna, l'anno del titolo sembrava annunciare un'epoca irraggiungibile, da fantascienza, appunto. Oggi che l'abbiamo superato, il 2001, guardiamo indietro al capolavoro diviso in tre capitoli di Kubrick che allora, pur assai discusso, promosse il cinema fantastico in serie A. Esso mantiene inalterata la sua magia ed è ancora più stimolante di ieri nelle sue domande senza risposta, anticipando la rivoluzione tecnica degli effetti speciali, mai più così belli e completi di senso morale. Si dice che sia impossibile rappresentare l'infinito, se non con una linea retta: non è vero.

Kubrick, rendendo ogni immagine un fuoco emotivo ed espressivo, c'è riuscito: 2001 è la materializzazione di un ragionamento, l'esaltazione di una esperienza visiva sull'infinito. Già nel fantastico prologo di 18 minuti, la landa desolata in cui gli scimmioni vivono, si sfamano, uccidono, in un flashback di 4 milioni di anni fa, riflette proprio un tempo senza confini. Così come quello che, al lancio dell'osso che diventa astronave, affronteranno i due piloti della nave spaziale diretta verso la Luna e comandata dal computer Hal 9000 (nome-omaggio alla IBM: le tre lettere ne precedono le iniziali) e che termina nel viaggio allucinante (ispirato al regista da un'esperienza di allucinogeni) in cui si annullano i concetti di spazio e tempo. Nove minuti di un fantastico, allarmante caleidoscopio visivo verso Giove, ma che atterra in una stanza rococò dove il protagonista Keir Dullea si vede vecchio e rantolante, con volto scimmiesco, accanto al misterioso monolito nero apparso già più volte, mentre un feto sembra guardare ironico in platea. Commentato da famosi refrain di Strauss come «Danubio blu» e «Zarathustra», 2001 è un magnifico, inafferrabile pamphlet di opposti: è spirituale e materiale, ottimista e disperato, scientifico e irrazionale, di fantascienza e di orrore. Il parallelepipedo è un ossimoro, il mistero della conoscenza che resiste alle pulsioni del tempo, così come l'apparizione del feto è la conclusione ma forse anche la rinascita di un'esperienza umana. Che rimane sempre uguale e, nonostante le apparenze, non fa passi avanti nelle domande fondamentali dell’uomo che galleggiano al ritmo di valzer.






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