Il giapponese che si tuffa nell'Occidente
di Mariarosa Mancuso
Gli europei sono affascinati dal Giappone, come un tempo erano affascinati dalle esotiche turcherie. Ma ogni tanto qualcuno va controcorrente. Haruki Murakami, per esempio, che ama il jazz, la maratona, i Beatles e La gazza ladra di Gioachino Rossini (appena dissimulata, nel titolo di un suo romanzo, come L'uccello che girava le viti del mondo). Aomame, l'eroina di lQ84, beve vino rosso e mai saké, veste giacche di Comme des Garçons, porta scarpe Ferragamo: ascolta la Sinfonietta di Leos Janacek. Murakami scrisse l'inizio del suo primo romanzo in inglese e solo dopo aver acchiappato il tono dimesso che gli piaceva lo tradusse nella sua lingua.
Interrogato, conferma di voler prendere le distanze «dalla maledizione della cultura giapponese, noiosa e appiccicosa».
Haruki Murakami non ama l'animazione di Hayao Miyazaki, troppo giapponese per i suoi gusti. Ma il padre fondatore (insieme al collega Isao Takahata) dello studio Ghibli - premiato nel 2005 alla Mostra di Venezia con il Leone d'Oro alla carriera - va controcorrente quanto lui. A cominciare dalla serie Heidi, tratta nel 1973 dal romanzo della scrittrice svizzera Johanna Spyri, accumula riferimenti alla cultura popolare dell'Occidente. Aveva in progetto una versione animata di Pippi Calzelunghe, mai andata in porto perché Astrid Lindgren negò i diritti. Si rifece con il De Amicis di Cuore, Sherlock Holmes, l'isola volante Laputa presa dai viaggi di Gulliver, l'ambientazione tra Italia e Dalmazia di Porco Rosso.
Girato nel 1989, Kiki - Consegne a domicilio fu il primo successo commerciale dello Studio Ghibli, così chiamato per il vento caldo del deserto e per l'aereo caproni della Regia Aeronautica progettato per operare nelle colonie africane (il padre aveva una fabbrica di componenti per aerei, Miyazaki ha ereditato la passione per l'aviazione). Esce ora nelle sale dopo varie traversie di doppiaggio, e anche in questo caso l'immaginario giapponese scarseggia.
Kiki è una streghetta, con tanto di scopa volante e gatto nero parlante di nome Jiji. Va via dalla casa dei genitori a tredici anni, per fare apprendistato. Dovrà trovare una città di suo gusto, purché sprovvista di una strega titolare, e imparare a cavarsela con le sue sole forze, magiche e no. La città sul mare, meravigliosamente disegnata e acquerellata, è decisamente occidentale. Le insegne dei negozi da lontano sembrano scritte in caratteri gotici, ma da vicino non significano nulla. Come se noi cercassimo di imitare gli ideogrammi giapponesi, non conoscendo la lingua. I poliziotti sembrano francesi, e pure i ragazzini con la maglietta a righe che cercano di fabbricarsi una bicicletta a elica. I tram che si arrampicano sulla collina ricordano San Francisco, voltiamo l'angolo e siamo a Lisbona. Un dirigibile vola nel cielo.
Una festa di acquerelli. L'apprendista strega trova rifugio nella soffitta di una panettiera, offrendosi per consegne a domicilio. Qui Hayao Miyazaki sfodera tutto il suo talento: nella caratterizzazione dei personaggi, nell'animazione, negli intermezzi comici, nel modo di raccontare una storia non originalissima, ma piena di dettagli incantevoli. Il gatto Jiji da solo vale il film: deve fingersi un pupazzo - quello vero da regalo è andato smarrito tra i corvacci di una foresta - e lo fa con il massimo dello stoicismo, mentre un cagnolone si aggira nei dintorni, Una festa per gli occhi, senza neppure il messaggio ecologico di Ponyo sulla scogliera. Raro tocco giapponese, un mare schiumoso che ricorda La grande onda di Hokusai.
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