John Landis: in fondo la morte valorizza molte carriere
di Giuseppina Manin
«La strada del progresso è disseminata di cadaveri», assicura John Landis. E non parla per metafora. Ladri di cadaveri, il suo nuovo film, racconta la storia vera di Burke e Hare, serial killer ottocenteschi, maestri nel procurare quelle carcasse umane tanto richieste dagli scienziati del tempo. Una coppia di delinquenti da brivido trasformati dal regista americano, geniale nel ribaltare in commedia i lati neri della vita, in eroi squinternati, buffi, romantici. «Una sorta di Stantio e Ollio malvagi», li definisce Landis. O anche, parafrasando un suo celebre film, due lupi mannari irlandesi a Edimburgo.
«In realtà: emigranti in cerca di un lavoro che non c'è - prosegue il regista, a Milano per presentare il film, applaudito allo scorso Festival di Roma e da venerdì nei cinema con il marchio Archibald - Così, prima s'ingegnano con furtarelli e imbroglicchi, poi scoprono la vera richiesta del Mercato: corpi, preferibilmente morti, da vendere sottobanco ai chirurghi dell'università, faro della ricerca anatomopatologa dell'epoca».
Ricerca pericolosa, in odor di stregoneria. «Anche Leonardo da Vinci, che la praticava, doveva farlo di nascosto - ricorda - il problema primo era il reperimento della "merce". Le uniche salme consentite ufficialmente per la dissezione erano quelle dei condannati a morte. Troppo poche e spesso in pessime condizioni».
Da lì la nascita di un traffico clandestino quanto fiorente.
Cinque sterline a cadavere. Per quella somma Burke e Hare son pronti a tutto. Il primo «affare» se lo ritrovano bello e fatto: un anziano ospite della sudicia pensione dove vivono. Una fortuna che non si ripetè. Per accelerare i tempi i due passano al fai da te: mendicanti e prostitute sono facili prede. Uno dopo l'altro ne fanno fuori 17. Consegna a domicilio, pagamento in contanti. Nessuno li reclama.
Da vivi non valgono niente, da morti moltissimo.
«Succede così a tutti - avverte Landis, ragazzaccio dalla barba bianca -. Vedi Michael Jackson. Da vivo un molestatore di bambini, un paranoico. Da morto un mito. Lo stesso è successo con Belushi. Quando giravamo Animal House e i Blues Brothers, un drogato perso. Appena morto, una leggenda. E anni fa, a Roma, incontrai Fellini.
Triste e frustrato perché nessuno voleva più produrre un suo film. Se ne andò poco dopo. E subito tutti a gridare al genio, al disperarsi di non poter avere più i suoi capolavori. Quando Elvis morì, ci fu chi commentò: "ottima mossa di carriera". Sì, la morte alza ogni reputazione».
Lui però, di avere un po' di credito da vivo, ci conterebbe ancora. «Ho tanti progetti, ma realizzarli è sempre meno facile. Hollywood ormai fa solo remake. Le major, che fino a qualche anno fa producevano 40 titoli l'anno, ora si limitano a 4, 5, meglio se con formula collaudata».
Intanto, domenica prossima sarà la notte degli Oscar. «Sono membro dell'Academy da 30 anni. E la penso come Hitchcock che mai ne vinse uno: "l'Oscar è una stronzata banale a meno che tu non sia candidato". È proprio così. Quando mia moglie, Deborah Nadoolman, ebbe la nomination per Il principe cerca moglie ero eccitatissimo ...»
Ma lei, il suo Oscar a chi lo darebbe? «Al film che più mi è piaciuto: The Social Network di David Fincher». Candidato otto volte alla statuetta. Un Oscar a Facebook non è da escludere.
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