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Il segreto di una pietra porta all'isola dei sogni


di Paolo Mereghetti


Primo film prodotto in proprio da Hayao Miyazaki con la neonata Ghibli, Il castello nel cielo arriva adesso sugli schermi italiani dopo essere stato distribuito in home video una decina d'anni fa col titolo Laputa-il castello nel cielo (che poi era la traduzione letteraria del titolo originale Tenkuu no Shiro Laputa).

Sono passati ventisei anni dalla prima proiezione ma il film non sembra soffrire per niente dell'età. Piuttosto acquista sul grande schermo quella forza e quella spettacolarità che i video familiari non potevano garantire. Perché forse per l'entusiasmo del «neofita» (Miyazaki aveva già diretto due lungometraggi prima di questo, Lupin III e Nausicaa, ma qui è la prima volta che anche produttivamente è padrone di se stesso) o forse per la voglia di sperimentare, Il castello nel cielo sembra anticipare tutti i temi che poi diventeranno centrali nella poetica miyazakiana, dal contraddittorio rapporto con la modernità al fascino per aerei e oggetti volanti, dall'amore-rispetto per la natura alla condanna di ogni militarismo, dalla centralità narrativa dei personaggi più piccoli all'amore per la cultura letteraria europea fino all'intreccio tra realtà e sogno, magia e avventura. Oltre naturalmente alla capacità di trasfigurare il reale con la forza dell'immaginazione e della poesia.

Lo si vede immediatamente dai titoli di testa, che arrivano subito dopo che un grande dirigibile è stato attaccato da un gruppo di folcloristici pirati dell'aria, grazie al quale la piccola Sheeta riesce a sfuggire al suo misterioso guardiano Muska. I disegni su cui scorrono i credit rimandano a un passato indefinito, tra Otto e Novecento, forse nella Gran Bretagna dell'industrializzazione forse altrove dove i simboli del lavoro (ciminiere, fabbriche) si intrecciano a strane e meravigliose macchine volanti. Un mondo fantastico ma anche concretissimo, con cui i protagonisti del film dovranno ben presto fare i conti. Anche perché la piccola Sheeta nella sua fuga dal dirigibile che la teneva prigioniera è precipitata nel vuoto: sarà salvata nella caduta dalla misteriosa pietra che è riuscita a rubare a Muska e accolta (svenuta) dal piccolo minatore Pazu.

Pian piano lo spettatore comincia a capire il valore e il significato di personaggi e oggetti, a cominciare da questa misteriosa pietra che in una delle scene più suggestive del film riesce a far brillare, all'interno di una galleria sprofondata dall'oscurità, tutte le pietre che sono incastonate e nascoste nella terra, ottenendo così un meraviglioso effetto di volta stellata luccicante. In effetti la pietra è la «chiave» che permette di impadronirsi e controllare la forza misteriosa che si nasconde nel «castello» cui fa riferimento il titolo, quello cioè che occupa la misteriosissima isola fluttuante di Laputa, di cui Sheeta ignora l'esistenza e che invece il piccolo Pazu cerca disperatamente, fidandosi di quello che il padre (esploratore dei cieli) gli aveva raccontato: che esiste un'isola tra le nubi, meravigliosa e misteriosa.

I lettori dei Viaggi di Gulliver avranno forse notato l'omonimia tra l'isola «abitata da uomini capaci di sollevarla, abbassarla e regolarne il corso a loro piacimento» e quella cercata dai due ragazzi del film. È uno dei tanti rimandi a una cultura «fantastica» di cui Miyazaki si nutre profondamente per immaginare le proprie storie e che poi naturalmente stravolge e modifica.

Qui si mescola all'Isola del tesoro di Stevenson, alle fantasie di Verne oltre a una concezione profondamente segnata dalla filosofia orientale e dal suo legame tra Vita e Natura. Perché la scoperta del "castello nel cielo" è solo l'inizio di una storia affascinante e appassionante, dove ritrovare Muska, i pirati dell'aria delle prime scene (guidati da una simpatica e arzilla vecchietta sdentata), stranissimi robot -guardiani e un generale avido di tesori. Ma soprattutto sarà l'occasione per lo spettatore di ammirare la straordinaria inventiva pittorica di Miyazaki, che nell'intreccio tra rovine medioevali e creazioni arboricole raggiunge livelli di genialità visiva davvero unica, da far impallidire James Cameron e il suo Avatar. Nei film successivi il regista giapponese toccherà vette poetiche più alte (penso a Totoro, a Ponyo, a certe parti della Città incantata) ma raramente riuscirà ad abbandonarsi a una così sfaccettata inventività narrativa, a un piacere tanto evidente (e contagioso) di «inventare storie».






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