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Trionfa il Bene (con la Noia) nella fiaba inglese - Fate, gnomi, orchi e streghe


di Giovanni Grazzini


Mai fidarsi del tam-tam pubblicitario, mai credersi dotati di virtù profetiche. Si fa la brutta figura di chi come noi definiva in anticipo stupefacente il film inglese Legend e preconizzava che per le virtù della messinscena e della fotografia, sarebbe stato difficile negargli uno dei premi. Poi magari la giuria glielo darà, e allora con impagabile faccia tosta potremo vantarci di averlo previsto, ma resta che il film tanto atteso per la giornata inaugurale è molto inferiore alle speranze e alla fama di un autore come Ridley Scott, al quale era giustificato far credito dopo I duellanti, Alien e Blade Runner.

Morso dalla tarantola del genere "fantasy" che va tanto di moda, Scott ha infatti confezionato una fiaba noiosetta anziché no, nella quale allo spreco di effetti speciali corrispondono moderate emozioni, e i proverbiali valori figurativi non sono tali da farci dimenticare i caroselli dai quali Scott proviene. Siamo, si fa per dire, nel Medioevo perenne della favolistica più visionaria. Con un dio delle tenebre tanto cattivo, che per non essere più infastidito dalla luce vuol far morire il Sole, simbolo del Bene, e per raggiungere l'infame traguardo sceglie una via assai tortuosa.

Qual è infatti l'incarico che affida a Blix, il suo abominevole inserviente? Di uccidere l'Unicorno, il bianco cavallo intoccabile che incarna l'innocenza, l'amore e l'allegria. E Blix obbedisce, con un colpo di Freccia, ma senza tener conto, il cretinotto. che oltre all'Unicorno nel bosco galoppa la sua femmina, altrettanto foriera di purezza, e che tutte le potenze del Bene si coalizzano per salvarla, guidate da un bel giovine Jack che vive sugli alberi e da Gump, un folletto bambino. C'è di mezzo ovviamente anche una candida principessa Lili, che ha promesso a Jack di sposarlo, e una fata Oona che vive sotto una specie di stella mobile, ma loro rappresentano soltanto il versante gentile del racconto. Il suo cuore batte nella perfidia e nella voce cavernosa del Signore delle Tenebre, nell'orrendezza degli orchi e delle streghe, nella putredine delle paludi seminate di scheletri, nei roghi infernali…

Tutte armi repellenti, però facilmente sconfitte dagli incantesimi degli spiriti buoni, dalla furbizia di Jack e dalla bontà della principessa che non cede alla lusinga di diventare la Regina della notte. Per cui il Male cade trafitto durante una tempesta di luce e Lili e Jack coronano il sogno d'amore mentre fate e gnomi ci dicono addio con la manina...

>Dubitiamo che Legend abbia lo stesso successo, nel pubblico d'ogni età, che arrise a Excalibur e alla Storia infinita, di cui ovviamente è parente stretto. Benché si valga della fotografia dello stesso Alex Thomson, appunto di Excalibur, il film è una vacanza per bambini teledipendenti che vogliano cambiare canale dopo tanti disegni animati giapponesi. e che si lascino convincere dai nonni a tornare ai vecchi racconti delle fate.

Mentre la storiella che racconta è un cocktail al quale concorrono molti elementi della favolistica classica (c’è dentro la tradizione celtica, c’è la bella addormentata, c'è Pinocchio e anche un pizzico di Tarzan), lo stile è spesso debitore a Walt Disney e agli spot televisivi, con un equo intervento di mostri da incubo, di nani mattacchioni, di spade magiche e presenze soavi. Salvo che per la caduta in tentazione di Lili, la quale sembra sul punto di cedere al maleficio della voluttà in una danza tenebrosa (è il punto più riuscito del film), i personaggi sono tutti di repertorio, e la fantasia di Scott si esercita a preferenza sulle scenografie, mirabolanti soprattutto nella rappresentazione degli Inferi, per le quali i maestri dei trucchi - lavorando in Inghilterra sul set che vide le capriole di James Bond - hanno messo a frutto ogni virtù del polistirene.

Gli effetti che ne ricavano eccitano senza dubbio il nervo ottico (si segnalano in particolare una tempesta di neve, la cucina dei diavoli, la sala del trono), ma tutto quel tripudio di immaginario scivola via a sipario chiuso, ne gli interpreti -l'esordiente sedicenne Mia Sara, il David Bennet del Tamburo di latta, l'hollywoodiano Tom Cruise, possono far molto per consentirci di uscire dallo stato bambinesco. Finisce che restano impressi l'occhio smarrito dei cavalli andalusi costretti al corno gigante, e il ghigno immenso di Sua Oscurità, tutto tinto di rosso come il marchio di un colorante.






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