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Un poema tecnologico


di Tullio Kezich


Fra tanto discutere di effetti speciali, si trascura di ricordare quel particolare effetto che esiste dagli albori del teatro: la capacità, per un attore, di apparire in scena (come dicono a Broadway) «più grande della vita». A tale proposito Giorgio Strehler mi raccontava di essere andato fino ad Amburgo per vedere il Faust di Gustav Gruendgens. E quando finita la recita bussò al camerino, il regista si vide accolto da un ometto dimesso e scolorito che lo pregò di attendere. Strehler immaginò che fosse il segretario, ma dopo un attimo lo vide ricomparire e si rese conto di avere davanti Mephisto in persona. Chi avrebbe potuto riconoscere in quella figura impiegatizia il diavolo incarnato che fino a poco prima aveva spadroneggiato sul palcoscenico?

Proveremmo tutti la stessa sorpresa se potessimo incontrare Ray Winstone protagonista di Beowulf. Anziché un possente vichingo alto quasi due metri scopriremmo un borghese sul metro e 70, pacioso e paffuto.

Tranne che in questo caso la metamorfosi non si deve esclusivamente al talento dell'attore, ma al procedimento elettronico chiamato «performance capture». Perché Winstone, come gli altri interpreti del film di Robert Zemeckis da Anthony Hopkins a Robin Wright Penn, ha recitato la sua parte in un ambiente senza scene, con la testa in un involucro trasparente, il corpo in una tuta con sensori dappertutto. Non tento neppure lontanamente di spiegarvi un elaborato procedimento tecnico che mi sfugge, fatto sta che il cinema è arrivato al punto di modificare l'aspetto fisico, la gestualità e il carattere dei personaggi «catturati» nel computer. E sapete cosa ne pensano gli interessati? Dopo un primo momento di sconcerto, sembrano contentissimi. Perché il nuovo procedimento gli permette di recitare le loro scene di fila, come a teatro.

Hopkins, grato e sbalordito, confessa di aver esaurito il non indifferente impegno in una settimana.

Ciò premesso, non è tutto qui il valore di un film nobile e insolito come Beowulf, che celebra il matrimonio d'interesse fra la tecnologia futuristica e il più antico poema di lingua inglese. Ambientato nel 500 d.C. fra Danimarca e Svezia, improvvisato a voce due secoli dopo, trascritto alle soglie dell'anno Mille, l'anonimo incunabolo racconta le gesta del guerriero Beowulf arrivato dal mare per uccidere il Mostro che affligge i possedimenti di re Hrothgar. Il quale si mostra tanto grato al liberatore da donargli i suoi beni, la corona e perfino la consorte Wealthow.

Dopo uno iato di mezzo secolo, l'ormai vecchio Beowulf deve affrontare una nuova creatura infernale in figura di drago alato. Ambedue i mostri sono figli di un’innominata strega acquatica (sullo schermo è la formosa e irresistibile Angelina Jolie, debitamente nuda e porporinata), ma se il poema non rivela l'identità dei padri delle orrende creature, il film avanza a sorpresa una sua ipotesi devastante.

Di Beowulf si può dire che affronta con spregiudicatezza la raffigurazione di un passato di cui esistono solo tracce archeologiche. Si impone all'ammirazione il lavoro di operatore, scenografo, costumiste (l'italiana Gabriella Pescucci), coreografi di carnasciali e duelli.

Gli attori recitano come se facessero Shakespeare e il computer ci pensa ad abbellirli, a invecchiarli, a motivare la loro fama di eroi.

Zemeckis ne emerge trionfante come un super-Blasetti, con a disposizione una tastiera elettronica che avrebbe mandato in estasi il nostro Sandro se nel '38, quando i miracoli si facevano a mano (ricordate La corona di ferro?), fosse magicamente apparsa a Cinecittà.






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