Men in Black 2, fanta-barzellette in versione kolossal
di Tullio Kezich
Mentre inventavano, in coppia, il finale di L'ultima carrozzella (1943), quando il protagonista stanco si accomoda in vettura e ordina al cavallo di portarlo a casa, Federico Fellini propose ad Aldo Fabrizi: «Facciamo che il cavallo gli risponde». Sbalordito il comico proclamò che il suo giovane collaboratore era completamente pazzo.
Chissà che cosa direbbe oggi vedendo in MIIB (Men in Black numero 2), un cane che parla, discute e fa da spalla a Will Smith finché dopo mezz'ora (troppo lunga l'attesa?) arriva in scena Tommy Lee Jones? Il fatto è che questa commedia fantascientifica, al di là degli effetti speciali svarianti e fracassoni, ricorda proprio l'umorismo surreale dei primi film di Macario negli anni della guerra, ai quali Fellini e i colleghi del «Marc'Aurelio» avevano dato un contributo di trovate.
Pare non sia stato facile rimettere insieme la coppia dei protagonisti e il regista Barry Sonnenfeld cinque anni dopo il successo ipertrofico di Men in black (1997), con un risultato che all’apparire del numero due sugli schermi americani nello scorso luglio fu giudicato deludente nella recensione di Variety.
Però Todd McCarthy, un ottimo critico che ha l'abitudine di prendere in considerazione i film anche sotto l'aspetto merceologo, stavolta ha sbagliato la previsione del botteghino. Se infatti in due mesi e mezzo MIIB non ha ancora realizzato i 600 milioni di dollari del numero 1 sul mercato mondiale ne ha già introitati circa 400 e deve ancora uscire in molti Paesi.
Certo il film risulta esile, con i suoi 88 minuti che diventano 81 sottraendo i lunghi titoli di coda, ma l'incalzare frenetico delle catastrofi lo rende un po' faticoso per l'occhio e l'orecchio sicché è parso bene farlo durare poco.
Sono solo barzellette anche se pantografate in dimensioni e costi da kolossal per raccontare le fumettistiche avventure di Kay & Jay impegnati a difendere la terra contro l'ennesima invasione degli alieni. Incurante di logica e plausibilità, Sonnendfeld bada solo a tenere il ritmo e non ha timore di spararle grosse, mentre i due "uomini in nero" sembrano impegnati in quella gara di impassibilità che si svolge all'insegna del motto «Chi ride prima?».
In definitiva, il film da una parte fa pensare al chiasso e alle emozioni superficiali di un parco di divertimenti, dall'altra alla galoppante fantasia di messer Ludovico Ariosto.
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