di Maurizio Porro

L'unione Disney-Pixar, una società che fa invidia alla Nasa, dopo «Toy story» e «A bug's life», produce con Monsters, un piccolo capolavoro dell'animazione digitale che pesca nelle paure notturne dei bambini. Sono le loro urla (poi saranno le loro risate) che alimentano l'energia della città dei mostri, creature della fantasia brutte, astratte e pelose. Accanto ai prodigi (si vedono 3 milioni e 200 mila peli che ondeggiano sul corpo di quella brava pasta di mostro blu-viola) il risultato è dovuto al fattore umano della storia, l'incontro tra due mostri e una bambina che provoca una crisi di coscienza. Pur con qualche scivolata nel buonismo disneyano, dopo l'impagabile, cinico primo tempo con le simpatiche creature picassiane e i boss ispirati ai veri boss, Monsters ha trovate geniali e magrittiane come quella di 14 milioni di porte (degli armadi) che si aprono sui panorami del mondo, nell'infinità come in «Truman show». È la nemesi storica, bellezza. Viscidi, umidicci, amorali, pelosi, anfibi, con un occhio solo, provvisti di colori improbabili questi 60 mostri che escono dall'inconscio infantile sono impiegati nell'industria del terrore organizzato, timbrano il cartellino, ma nel film esorcizzano le paure. E gli adulti, divertiti, si associano volentieri nel gioco, perché il messaggio è di tolleranza piena: aprite le porte, superate le barriere.

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