Una Tv nel cervello spia Romy Schneider
di Giovanni Grazzini
L'idea quale sarebbe? Di trasmettere in diretta non già la telecronaca d'una partita di calcio o di qualche stretta di mano fra notabili ma l'agonia d'una donna. Sempre più affamati di emozioni, gli spettatori potrebbero coglierne cosi gli attimi supremi. Il sistema oggi sembra fantascientifico ma esistono già i presupposti tecnici per realizzare il mostruoso progetto. Basta inserire una microcamera nel cervello di qualcuno, e usare i suoi occhi come obiettivi: qualunque cosa egli guardi, sarà trasmessa alla centrare della TV e da qui diffusa sui teleschermi domestici.
Tratto da un romanzo dell'inglese David Compton (sceneggiato dal regista coll'americano David Rayfiel, che già scrisse per Pollack), il film suppone che l'orrendezza accada in Gran Bretagna in un futuro nemmeno troppo lontano. Un giovane, Roddy, sottoposto a quel tipo d'innesto, viene incaricato dalla Tv di seguire passo passo la signora Katherine, alla quale un medico (ma anch'esso pagato dalla TV) ha tristemente comunicato che ormai per lei non c'è più speranza e ha dato certe pillole per lenire i dolori.
Roddy svolge con zelo il suo compito, e insegue lo donna ovunque essa si nasconda, fra le bancarelle d'un mercato, in un dormitorio dell'esercito della salvezza, in una baracca in riva al lago. Ma standole accanto cresce in lui il rimorso, d'illuderla. Quando viene a sapere che Katherine era in realtà sanissima, e che proprio le pillole del medico la conducono alla morte, per la disperazione s'acceca, interrompendo così le trasmissioni.
Nella casa di campagna in cui i due si sono rifugiati, e dove Katherine ha ritrovato il suo primo marito, si celebra il tragico epilogo: la TV piomba con l'elicottero per riprendere gli ultimi istanti della donna, ma lei riesce a scomparire giusto in tempo. Cieco e sconvolto, Roddy resta a testimoniare la barbarie cui ci condurrà il progresso tecnologico.
La morte in diretta è un film moralistico, che sulla scia di Quinto potere ci prospetta un futuro ancora più atroce di quello dietro l'angolo, e ne attribuisce la colpa al congiunto sviluppo dei mass media e del cinismo. Domani, ci avverte Tavernier, l'infelicità e la miseria non saranno vinte ma diverranno ancor più oggetto di spettacolo per un mondo che, essendosi prolungata la durata della vita, affiderà alla TV (un nuovo diabolico dottor Mabuse) il compito di spiare i sentimenti estremi. L’aspetto più interessante del film non sta tuttavia in questo allarme, e nemmeno nell'autocritica cui in certi soprassalti della coscienza si abbandonano i professionisti dell'immagine, l'uno e l'altra ormai di maniera, bensì nella struttura narrativa e nel tono scelti dal regista.
Rifiutati gli aggeggi e gli effetti della science-fiction più plateale, Tavernier risponde ai colossi americani ambientando lo sua storia nei quotidiani paesaggi della Scozia, resi ancor più fantastici dalla fotografia di Pierre William Glenn, e tentando di esprimere il nodo lirico delle situazioni senza stare troppo a ridosso dei personaggi, in modo da coglierne la drammatica evidenza come da un accorato osservatorio.
Ciò conferisce al film una certa freddezza, ma punta tutte le luci sulle figure anziché sulle solite macchine avveniristiche, e consente di meglio apprezzare la prova degli interpreti: una Romy Schneider che sa toccare da maestra le più varie tastiere emotive, un Harvey Keitel ben calibrato nell'empio e nel romantico, un Max von Sydow saldo come sempre.
Fanno loro corona attori minori del teatro scozzese che aggiungono tocchi di verità a una storia la quale anche per merito della musica di Antoine Duhamel (caro a Godard e a Truffaut) non cade mai nel sensazionale e tuttavia fa correre un brivido lungo la schiena. Infine una curiosità: mentre la massima parte dei film che si vedono in Italia utilizza la pellicola americana Eastmancolor, questa è girata invece in Fujicolor. Chi vuole, faccia il confronto.
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