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La favola (moderna) dell'amore perde la forza dell'incantesimo


di Paolo Mereghetti


Tra le immagini che si sono depositate nel mio bagaglio cinematografico d'adolescente, quando la forza della visione veniva prima di qualsiasi valutazione critica, c'era - fortissima - l'inquadratura di un braccio che, uscendo da un muro, sostiene un candelabro. Immagine misteriosa, affascinante e magica che mi si era stampata nella memoria durante una vacanza studio in Francia, quando la conoscenza della cultura passava anche attraverso il cinema. Perché il braccio candelabro era uno dei tanti che popolavano un film insolito e meraviglioso e che ogni volta che rivedo continua ad affascinarmi: La bella e la bestia di Jean Cocteau, del 1946.

Così, quando ho scoperto che Christophe Gans era tornato a ispirarsi alla favola di Madame Leprince de Beaumont l'attesa si era intrecciata alla paura: la voglia di rivedere la favola che mi aveva affascinato da giovane (e che la versione disneyana a cartoni animati aveva solo in parte soddisfatto, nonostante l'invenzione del ballo tra i due protagonisti, per altro ripresa anche in questa nuova versione) andava in parallelo con il dubbio che lo strano equilibrio tra poesia e ingenuità che faceva la principale qualità del film di Cocteau potesse sparire di fronte al realismo dei trucchi digitali. Anche perché il regista più che per le opere precedenti (ricordo un deludente Il patto coi lupi e un più interessante Silent Hill) si era fatto notare come animatore di una curiosa rivista ultralussuosa di fantascienza ed effetti speciali, Starfix.

Diciamo subito che il risultato finale, se non delude nemmeno convince fino in fondo, proprio perché - marketing oblige - il «bisogno» di ammodernare la storia finisce, nella seconda parte per favorire una rilettura fantastica che un po’ stona con la prima parte, per me più convincente. Faccio infatti fatica a dimenticare che la storia della bella e della bestia è una favola e vorrei che tutto il tono fosse tenuto sulle corde di una lettura più immaginifica e meno realistica. Una sensazione che deve aver provato anche il regista se il film comincia con una mamma che racconta ai suoi figli una storia che ogni tanto utilizza le pagine disegnate di un libro per sottolineare l'origine libresca. Certo, non è l'incipit di Cocteau, con quella sua dichiarazione d'intenti sull'ingenuità infantile e sulla richiesta allo spettatore di adattarvisi, ma sono anche passati quasi settant'anni da quella versione e qualche concessione ai «nostri tempi» bisognerà pur farla.

La si vede, quella concessione, soprattutto nell'attribuire al padre armatore (Adré Dussolier) non solo le tre tradizionali figlie - la remissiva e dolce-Belle (Léa Seydoux) e le acide e ambiziose Anne e Clotilde (rispettivamente Audrey Lamy e Sara Giraudeau) - ma anche tre figli (Jonathan Demurger, Nicolas Gob e Louka Meliava), i cui pessimi rapporti col denaro e col violento Perducas (Eduardo Noriega) saranno all'origine di alcuni dei colpi di scena del film. Che comincia con la miseria che si abbatte sulla casa dell'armatore, l'illusione di tornare in possesso delle proprie ricchezze, il suo perdersi nella foresta che lo porta in un misterioso castello e il «furto» di una rosa nel giardino della Bestia, che gli chiede in cambio la sua vita. Anche se poi sarà Belle a sacrificarsi per il padre e accettare la convivenza con il mostro ferino.

La favola probabilmente è troppo celebre per richiedere ulteriori informazioni. Più interessante raccontare come Gans (che firma anche la sceneggiatura con Sandra Vo-Anh) risolva il problema della visibilità del suo protagonista maschile, Vincent Cassel, che essendo costretto fino alla fine del film a nascondersi dietro il pesante trucco della belva rischiava di deludere quella parte di pubblico disposta a comprare il biglietto per lui. Era un problema che già Cocteau si era posto con Jean Marais, a cui aveva affidato un doppio ruolo, quello appunto che lo rendeva irriconoscibile in quanto Bestia ("mostro" diceva il doppiaggio italiano) e quello dello spasimante di Belle e compagno di bisbocce del fratello.

Qui invece Gans decide di svelare quasi subito le ragioni per cui il principe sarà trasformato in un mostro, alternando la storia di Belle e del suo offrirsi in ostaggio alla Bestia con quella della precedente vita del nobile cacciatore, incapace di mantenere la promessa fatta alla bella moglie. In questo modo offrendo al pubblico femminile abbondanti primi piani di Cassel senza gli ispidi peli leonini che lo rendono irriconoscibile nei panni della Bestia.

In questo modo però, si perde una parte del mistero e del fascino della favola, ma soprattutto il film finisce per negarsi quella che avrebbe potuto essere la sua chiave interpretativa più interessante, e cioè una più decisa sottolineatura della componente psicoanalitica (ed erotica) che la favola di madame Leprince de Beaumont contiene e che il cinema aveva già altre volte sfruttato, a cominciare da King Kong.






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