Notti da incubo (senza sangue) a circuito chiuso
di Maurizio Porro
Spielberg, per fortuna del marketing, ha avuto paura. Ha visto gli 86 minuti di Paranormal Activity di mattina ma non è l'unico psicolabile, tanto che la Paramount prepara un sequel. Non è un vero horror questo che ha sbancato in Usa con un clamoroso plusvalore (15.000 dollari di spese, compresi i bicchieri rotti in casa e 108 milioni di dollari d'incasso) e si appresta a far lo stesso in Europa: non si vede una goccia di sangue, è una storia moderna di ansia al registratore, angoscia e claustrofobia, un mix ideale per contagiare spettatori trendy post Sindrome di Stendhal.
Horror dell'inconscio, freudiano, horror casalingo perché son le cose di tutti i giorni che si rivestono di spavento. E l'invisibile vince sul visibile. L'autore deb israeliano Oren Peli dice di essersi ispirato a sé e alla sua ragazza quando andarono a vivere a San Diego. Chiaro che, sulla falsariga di un classico (una casa infestata da spiriti, dèmoni, poltergeist, entità), s'inventa e scrive una storia fingendo nasca solo dalle immagini riprese dalla telecamera a circuito chiuso che fa da guardiana nell'abitazione per scoprire il come e il perché di strani, inquietanti rumori notturni. Il regista fa l'en plein, forte di un passaparola giovanile entusiasta seguendo la moda della paura su nastro come hanno insegnato Blair witch project, Cloverfield e Rec. È come se l'uomo, oggi non si fidasse del rapporto causa effetto e volesse la testimonianza di una telecamera, ma Antonioni in Blow up aveva già dimostrato che nessuno è peefetto, neanche una foto. Per scoprire infatti che non è la casa ad essere infestata dal dèmone che vorrebbe solo un ménage paranormale a tre, ma la gentilmente isterica compagna.
Negando ogni privacy, gli appostamenti notturni riprendono il sonno agitato della coppia che si fa qualche coccola (meno che nei Grandi Fratelli, altra ispirazione), ma dorme a balzi e scosse, svegliandosi nel cuore della notte per le molestie di un'entità che finisce per tirare giù la donna dal letto e via.
Il segreto per angosciarsi è pensare che possa accadere col finale che vuol sembrare un (vissuto) delitto senza castigo. La pochezza espressiva del tutto è lampante. primo perché ricalca molte storie simili, poi perché la ripetitività regna sovrana. I due coraggiosi attori scelti con un annuncio, Katie Featherston e Micah Sloat, hanno affrontato la prova forse con psicofarmaci (il comodino non è ben inquadrato). Litigano da invasati, ma la sceneggiatura non permette gran che: lei non fa che dire Oh mio Dio, lui sintetizza con la famosa espressione nazional popolare con due zeta, ma coniugata in più inflessioni, sussurrata, gridata, chiosata. Forse il film vale per quello che non mostra, neppure dice, la paura della porta accanto, quella comunissima, borghesissima porta bianca accanto al letto che separa in questo caso due mondi, l'al di qua e l'al di là, con il solo confine tecnico di una telecamera.
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