Ora gioco alle belle fatine
di Alessandra Mammì
Peccato che Campanellino sia muta perché la voce di Ludivine Sagnier invece è bellissima: ruvida, avvolgente, sensuale; romantica.
Perfetta sarebbe per questo "Peter Pan" di J.P. Hogan (in sala dal 2 aprile): film sensuale, avvolgente e terribilmente romantico. Mica facile ritornare sull'eterno ragazzo dopo Disney e Spielberg. E mica facile fare un altro film gotico-visionario dopo le oltre 12 ore di delirio fantasy del "Signore degli anelli". Ma nel continente australe soffia uno strano spirito di questi tempi. Un magico cortocircuito tra favole nordiche, paesaggi neozelandesi e registi molto ispirati.
«Io ci credo nelle fate», urlano tutti insieme Wendy & brothers, Bambini Sperduti, pirati, Uncino e Spugna. Ci crede davvero anche J.P. Hogan che palesemente ha studiato i "fairy tales" inglesi, le illustrazioni di Blake, le idilliche visioni di J.W. Waterhouse, le bellezze preraffaellite, le architetture della Londra edoardiana. Ci crede anche il produttore esecutivo Mohamed Al Fajed che con struggente dedica ha destinato il film a suo figlio Dodi e ha finanziato, con pochi limiti di budget, una spettacolare ricostruzione dell'"Isola che non c'è" negli australiani Warner Roadshow Studios di Gold Coast.
Ci hanno creduto tutti, insomma, nelle fate e ci crederà anche il pubblico di questo crepuscolare "Peter Pan" dei nostri tempi pieno di desiderio, di nostalgie, di iniziazione alla vita e all'amore, di citazioni colte e raffinate, di giovinezze perdute e frasi chiave del tipo «morire è solo un'altra fantastica avventura». Abbiamo bisogno di questo Peter Pan maschietto impunito, rinato Errol Flynn di 14 anni (Jeremy Sumpter) che vola dritto come un fuso, gioca di scherma, salta e piroetta come un maestro di scherma e arti marziali. E accanto a lui, un Capitan Uncino ricciolone, dandy e poetico appena uscito da un disegno di Bearsdley e una Wendy dodicenne bella come Laetitia Casta e consapevole della sua potenza seduttiva.
Tutti crederemo di nuovo nelle fate, e nella fatina più piccola e dispettosa che c'è: una Campanellino col broncio francese che svolazza come una lucciola, fa le smorfie come un cartoon, sputa dagli occhi tutto il suo odio per Wendye nel nostro immaginario spodesta non solo la sofisticata Julia Roberts di Spielberg, ma anche la fin troppo deliziosa figurina di Disney. Una Ludivine Sagnier che lascia i conturbanti ruoli dei film di François Ozon e il trono di giovane sexy-star di Francia per diventare fata e raccontare la favola più strana del mondo.
Dopo la "Piscina" di Ozon lei era stata incoronata come la nuova Brigitte Bardot e invece eccola tutta vestita di foglioline verdi a far smorfie come un piccolo teppista. Non ha paura di tanto repentino cambiamento di ruolo?
«Non mi sono mai sentita una Brigitte Bardot. Mi ha fatto piacere il confronto, ma non credo nelle reincarnazioni. Lei poi aveva un sex appeal così forte che le bastava mettersi di fronte all'obiettivo per diventare oggetto sessuale. Io, invece, credo più nel travestimento che nell'esibizione del corpo. Campanellino è un oggetto di desiderio e di fascinazione, ma la sua seduzione è basata sulla mimica, sulla spontaneità. Deve essere credibile anche per un pubblico infantile che non è corrotto da cliché mediatici. Il maggiore sforzo è stato tornare bambina ed è cosa ben più difficile che spogliarsi di fronte alla macchina da presa. È più facile mettersi nuda che mettersi a nudo».
Come ha lavorato sul personaggio?
«All'inizio mi sono molto affidata alle immagini. Ho cercato pitture inglesi, rielaborazioni di "Peter Pan" in libri per bambini. Alcuni, quelli che mi piacevano di più, davano di Campanellino una versione più cinica e teppista di quella disneyana. Un personaggio dispettoso, geloso, cattivo. Un personaggio insomma, da teatro goldoniano. Non era facile dovendo esprimere il tutto solo con la mimica, così ho cominciato a lavorare più sui miei difetti che sulle mie qualità».
E ha anche studiato mimo?
«Mai nella vita. Ho preferito lavorare con mia nipote di dieci mesi che non parla ancora. Sono stata giorni con lei senza pronunciare parola, comunicando con gesti e smorfie. Dovevo ritrovare la spontaneità e lo spirito ludico che precede l'articolazione del linguaggio».
Lei lavora sempre così?
«La cosa più bella è ogni volta inventare un metodo di costruzione dei personaggi. Nella "Piscina" il rapporto più forte era con il mio corpo, mi sono calata in un'esperienza completamente fisica. Nella "Petite Lili" bisognava invece scavare nell'intimità di un personaggio teatrale universale ispirato a Cechov. Qui invece il lavoro era visivo: trasformarmi in una fata clown vista dagli occhi di un bimbo».
È stato difficile?
«Faticoso. Una fatica muscolare. Il primo giorno di set ho avuto una crisi di panico.
Mi resi conto che per tutte le riprese sarei rimasta sospesa a mezz'aria, senza altri attori, senza scene, senza riferimenti dimensionali e muta. Appesa ai fili come un burattino: io e uno schermo blu (il blue screen: base neutra per gli effetti speciali, ndr)».
È contenta del risultato?
«No, sono rimasta un po’ delusa. Hogan adorava il mio personaggio e mi ha fatto lavorare tantissimo. Ma in post produzione sono stati imposti forti tagli. "Hogan non puoi mettere Campanellino dappertutto, è troppo cara". E lui, a malincuore, in parte ha ceduto. D'altra parte capisco: sono un effetto speciale, costo un milione di dollari ogni dieci secondi».
Dal cinema d'autore europeo al set di un kolossal: cosa ha voluto dire per lei?
«Sconvolgono le proporzioni: si passa da una troupe di 50 anime dove ci sia chiama per nome a un set di 600 persone dove alla fine del film non hai ancora conosciuto tutti. E poi il sistema di rapporti è terribilmente complicato. Se devi dire una cosa al produttore significa passare per il proprio agente, che chiama l'avvocato, che chiama l'avvocato del produttore, che chiama la segretaria del produttore che infine riferisce al produttore. E questo anche se il produttore in questione è nella stanza accanto».
Non mi sembra che le piaccia molto…
«Il sistema no, ma questo film invece lo considero fondamentale. Sia perché Hogan non è un regista di action movie, ma ha alle spalle un lavoro sulla commedia e ama dirigere gli attori. Sia perché questo è un progetto colto, dove ogni personaggio è ricostruito su basi pittoriche, letterarie cinematografiche. Non è solo un film commerciale, ma una complessa messa in scena di "Peter Pan"».
Lei, Ludivine Sagnier, crede nelle fate?
«Perché lei no?».
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