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L'allegria fracassona del pirata Depp


di Tullio Kezich


Ai tempi del «Sandokan» televisivo fui incaricato di dare una mano al regista Sergio Sollima il quale proprio in questi giorni nello scrivere le sue memorie sta rievocando le nostre scorribande in India e Malesia. Prima però avevamo dovuto accomodare le sceneggiature, elaborate a più mani, dalle quali emergeva un grosso difetto: la mancanza di una trama vera e propria.

Nella speranza di ritrovarla, risalimmo ai romanzi di Emilio Salgàri solo per scoprire che il filo narrativo era labile anche all'origine. Arrembaggi, tempeste, incendi, belve feroci, duelli fughe, agnizioni: un succedersi di eventi senza sosta, ma anche senza nessi logici. Finì che il soggetto ce lo inventammo, raccogliendone i pezzi qua e là, e la risposta fu un successo da 28 milioni di spettatori.

Ho rievocato questa vicenda perché assomiglia alla parabola hollywoodiana di Pirati dei Caraibi, la trilogia iniziata nel 2004 con La maledizione della prima luna e destinata a concludersi nel giugno 2007 con un At Worlds End. Proprio come Salgàri era fuori moda negli anni '70, i film sui pirati sembravano un filone esaurito quando il produttore Jerry Bruckheimer issò al picco il Jolly Roger e spedì sugli oceani il capitano Jack Sparrow alias Johnny Depp. Gli esperti profetizzarono un fiasco e anche i 650 milioni di dollari introitati furono accolti all'insegna del «dura minga». Lo prova la cautissima accoglienza di «Variety» all'uscita Usa in luglio di questo La maledizione del forziere fantasma: Todd McCarthy ne deplorò le due ore e mezza, troppe per la limitata pazienza dei ragazzi di oggi e per gli esercenti costretti a rinunciare a uno spettacolo; e a rincalzo scese in campo l'editor, Peter Bart, con una lettera aperta a Bruckheimer in cui gli chiedeva: perché non hai rimandato l'uscita il tempo di tagliare mezz'ora di film? Eppure la pellicola stava ormai galoppando verso incassi che supereranno il miliardo di dollari. Un bello scacco per la testata che si reputa la Bibbia dello spettacolo (in Italia il film, nel primo giorno di programmazione, ha incassato la cifra record di 1.184.000 euro).

Smentite sul piano della contabilità, le obiezioni di McCarthy hanno una certa validità su quello estetico. I temi del film (la triplice ricerca di una bussola inaffidabile, di una cassa del tesoro e della chiave per aprirlo) non bastano come collante del racconto, che si affida soprattutto al barocchismo delle sorprese: Orlando Bloom e Keira Knightley ammanettati nel dì delle nozze, Depp che evade dentro una bara galleggiante abbracciato a un cadavere, i cannibali che lo accolgono come un dio ma vogliono mangiarlo, la fuga dei corsari imprigionati dentro una gabbia che rotola, un duello che finisce sulla ruota vagante di un mulino, il mostruoso equipaggio di zombi dell'"Olandese volante", la piovra gigante Kraken che alla fine risucchia anche il protagonista... E Depp, che ha caratterizzato il suo antieroe scartando il modello aulico di Errol Flynn e ispirandosi invece a Keith Richards "rapper" sporcaccione e maleducato, ha raggiunto i vertici della popolarità. Segno che la produzione è più avanti della critica, rispecchiando i gusti magari rovinosi e perversi dell'Uomo massa?

Pur strizzando l'occhio a Stevenson (il "dead man chest" del titolo originale viene da «L’isola del tesoro» e così anche la Macchia nera, il cattivo con la gamba di legno e cento altri tocchi), Pirates of the Caribbean più che alla letteratura si ispira all'omonimo baraccone di Disneyland. Ha ragione McCarthy quando afferma che il divertente spettacolo non stimola né le emozioni né l'intelligenza; e in realtà non sono i pirati a fare paura, ma il vuoto che nasconde tanta allegria fracassona. Quanto al paragone con Salgàri, regge si e no: se nei suoi libri manca l’umorismo, che qui si spreca, sullo schermo la commozione è assente. Impensabile immaginare per Depp un finale come quello con il Corsaro Nero che piange…






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