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Disastri esotici in digitale


di Maurizio Porro


Non so se sia infelice il cinema che ha ancora bisogno di videogames (prima era il contrario) ma Prince of Persia è un giocattolo divertente in cui comanda l'effetto speciale digitale nel creare disastri, ma Jake Gyllenhaal, ex cowboy ex gay di Brockeback mountain torna nel golfo di Persia di Jarhead, in grado, dopo 3 mesi di palestra anche di camminare sui muri, esponendosi al parkour, nuova arte marziale di strada.

Per gustare il primo match di quella che l'abile produttore Jerry Bruckheimer minaccia come una trilogia alla Pirati dei Caraibi, basta regredire all'età fantasy, avere il pop corn e tornare al cinema ingenuo ed emozionante. A tutta avventura esotica fra menzogne e sortilegi, deserti e spade, magìe e villain pronti al peggio, fratelli, serpenti e la bella Gemma Arterton che, lasciata nuda e morta sul letto da Craig 007, risorge per prendere al lazo il principe Dastan. Che vuole appropriarsi del pugnale magico, ambìto dai perfidi, che permette di riavvolgere il tempo come nelle profezie di Wells, in Accadde domani di Clair, nei giochi edipici di Ritorno al futuro. I due prenotatissimi amanti battibeccano tra un cataclisma e un altro (magnifico il tempio di sabbia fino al centro della Terra); poi, come si addice al film tratto dal mitico videogame dell'89 che ha venduto 14 milioni di copie, ecco in saldo salti ed equilibrismi, capriole e corse con cui Gyllenhaal gioca anche di spirito e smaltisce i cinque kg di muscoli del training.

Ma come si addice a un gioco, gli effetti visivi sono assoluti padroni nei panorami magnifici computerizzati dal vivo del Marocco, mentre il clou è il riavvolgimento del tempo che passa e va come un vortice sui profili degli attori, effetto digitale giocato sul ralenti come il famoso "bullet time" di Matrix, che smorzava la velocità dei proiettili. Pur senza scomodare Proust, viene in mente Lawrence d'Arabia, grazie a un accordo musicale di flagrante plagio e per il marketing esotico dell'insieme che alla fine risulta avvolgente e gradevole anche perché si evita troppa adrenalina e soprattutto il 3D che avrebbe gettato sabbia negli occhi non in senso metaforico. Dirige il tutto Mike Newell, autore inglese di 4 matrimoni e un funerale e di un Harry Potter, DNA da colonialismo; cast protetto da ghiotti caratteristi inglesi come Kingsley e il bravo Alfred Molina, tipo-kolossal Anni 60.

Che poi sia addirittura un film scespiriano in cui vagano fantasmi di Riccardo III e Re Lear, qui avrei seri dubbi.






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